Secondo alcuni esperti lo spostamento dei profitti da parte dalle multinazionali sarebbe costato al governo degli Stati Uniti, nel 2012, tra i 77 e i 111 miliardi di dollari.
L’uso da parte delle corporations dei paradisi fiscali avrebbe ridotto le entrate del governo statunitense per oltre 280 miliardi di dollari. Solo Microsoft deterrebbe attualmente in conti esteri circa 108 miliardi di dollari.
Negli Stati Uniti tra gli argomenti più dibattuti dai candidati alle prossime elezioni presidenziali quello della riforma del fisco riveste un ruolo determinante.
L’attuale sistema fiscale statunitense, oltre ad applicare un’aliquota molto elevata sugli utili di impresa (35%) costituisce un’eccezione rispetto a quelli in vigore nei principali paesi sviluppati. Tale eccezionalità è dovuta al fatto che le imprese che operano sul suolo statunitense sono tenute a versare nelle casse dell’erario un’imposta su tutti gli utili complessivamente realizzati. Il fisco a stelle e strisce, dunque, colpisce anche gli utili realizzati dalle consociate al di fuori del territorio americano.
Tale sistema rappresenta l’unica forma di tassazione globale rispetto a tutti gli altri sistemi fiscali in vigore nei restanti paesi del G8 e nell’80% di quelli dell’OCSE; questi ultimi hanno adottato invece, in diverse forme, un sistema misto, basato su un principio di territorialità secondo il quale le imprese sono tenute a pagare solo le tasse sul reddito realizzato in quel dato paese.
A dire il vero nel sistema fiscale statunitense vige una disposizione importante chiamata differimento che consente alle imprese di sospendere il pagamento delle tasse sugli utili realizzati all’estero, fino a quando non li avranno riportati negli Stati Uniti; ma ciò significa solo che queste, messe nella possibilità di scegliere, preferiscono tenere i loro profitti all’estero piuttosto che riportarli a casa, riducendo così il carico fiscale.
E’ stato stimato, infatti, come le grandi multinazionali americane detengano, attualmente, in conti esteri circa cento miliardi di dollari. Questo cosiddetto “effetto blocco” si traduce, in concreto, in minori investimenti negli Stati Uniti, ed in una quota inferiore di utili distribuiti agli azionisti. Dal momento che gran parte di ciò che le aziende guadagnano rimane all’estero e non è tassabile, il fisco americano riesce a raccoglie attraverso il sistema di tassazione globale solo una piccola porzione di entrate. Allo stesso tempo, il fatto che i guadagni conseguiti all’estero rimangano in “esilio“, incoraggia la scelta delle multinazionali di evadere il fisco, ad esempio mettendo in atto quella che tecnicamente viene definita l’inversione fiscale.
L’inversione fiscale e le risposte dei candidati
Il più importante affare del 2015 è stato, a parere di molti, anche quello più opaco: la fusione dal valore di 160 miliardi tra il gigante farmaceutico americano Pfizer ed il gruppo farmaceutico irlandese Allergan. Si tratta di una inversione fiscale, ovvero il trasferimento della residenza fiscale in Irlanda da parte del gruppo nato dalla fusione delle due multinazionali. Pfizer si trasformerà, a tutti gli effetti, in una società irlandese, così da poter ridurre il suo carico fiscale. Questo meccanismo, posto in essere esclusivamente per abbattere il carico fiscale, ha prodotto, mentre il mondo continua ad attraversare la crisi economica, una generale indignazione. Hillary Clinton ha dichiarato che mettere fine a questo tipo di condotta non rappresenta solo una questione di equità, ma anche di “patriottismo”. Donald Trump invece ha definito tale fusione “disgustosa”. Ora, quando anche uno come Trump trova questo modo di fare soldi ripugnante, la questione deve farci riflettere.
Nel frattempo, il meccanismo dell’inversione sembra stia prendendo sempre più velocità. Un tempo questo genere di operazioni erano molto rare – il Congressional Research Service sostiene che ce ne fu solo una negli anni ottanta – ma negli ultimi dieci anni ne sono state registrare più di cinquanta, la maggior parte delle quali a partire dal 2009. Anche se negli ultimi due anni sia il Dipartimento del Tesoro che l’IRS (l’agenzia delle entrate statunitense) hanno adottato nuove regole destinate a rendere l’inversione più difficile, la tendenza è proseguita a ritmo sostenuto anche nel 2015. Tutto sommato ciò era prevedibile a causa sia del carico fiscale attuale negli Stati Uniti, che alla natura mobile delle grandi multinazionali.
La proposta del democratico Bernie Sanders consiste semplicemente nell’abolire la pratica del differimento, e nel far pagare alle società le tasse sui profitti realizzati all’estero, non appena questi vengono contabilizzati. Nel breve termine ciò aumenterebbe il gettito fiscale, ma finirebbe per rendere l’inversione ancora più allettante e, a lungo andare, ridurrebbe probabilmente il numero di nuove aziende sorte negli Stati Uniti per incorporazione o fusione.
Un’alternativa più plausibile sarebbe quella di seguire l’esempio della Germania e del Giappone, adottando un sistema territoriale ibrido. Anche se i dettagli sono complicati, il principio basilare sarebbe quello territoriale, secondo il quale i profitti verrebbero tassati nel luogo in cui vengono realizzati. Ma dal momento che qualsiasi sistema territoriale è vulnerabile a schemi di evasione fiscale, quali lo spostamento dei profitti, facendo apparire come se questi fossero stati conseguiti all’estero, sorgerebbe anche la necessità di avere norme molto più rigide contro l’evasione, come tassare con un’aliquota fissa i redditi ottenuti all’estero e limitare la capacità delle imprese di spostare i loro redditi nelle filiali estere, in paesi con regimi fiscali agevolati. Inoltre, come parte di tale regime ibrido, le società sarebbero tenute a pagare le tasse su tutti i profitti che continuano a detenere all’estero. In teoria un tale sistema spingerebbe le società a mantenere negli Stati Uniti le loro sedi (ed un maggior numero di posti di lavoro), oltre a riportare indietro gli utili custoditi all’estero, senza mettere le mani sul livello di tassazione interna e sul gettito fiscale. Tale strategia avrebbe anche qualche attrattiva bipartisan: diverse versioni di questo modello di riforma sono state infatti presentate sia dall’amministrazione Obama, che dai rappresentanti repubblicani al Congresso.
Gli schemi finanziari di Microsoft
Un esempio eloquente delle modalità adottate dalle multinazionali per spostare i loro profitti viene fornito da Microsoft, leader mondiale nella produzione di software.
Quando qualcuno compra una copia di Office presso il Microsoft Store di Piazza Bellevue, a Seattle, il denaro che paga non prende la via breve per la sede della società, a Redmond, a quattro miglia di strada.
Dopo il calcolo delle imposte statali, il ricavo va ad una filiale di vendita di Microsoft con sede nello stato del Nevada.
Da lì, gran parte di quel denaro inizia una complessa migrazione su scala internazionale che porta, in ultima analisi, oltre Atlantico, con due fermate presso il paradiso fiscale dell’isola di Bermuda.
Negli ultimi 20 anni Microsoft ha costruito una rete di filiali per ridurre al minimo le tasse che paga ai governi di tutto il mondo.
Ma non è la sola. Molte multinazionali hanno creato strutture simili, riuscendo in alcuni casi a ridurre il loro carico fiscale quasi a zero.
Da una causa che ha condotto lo scorso anno in tribunale Microsoft e l’Internal Revenue Service ( IRS) sono emersi nuovi documenti con ulteriori particolari sulle attività poste in essere per costituire tale rete. Altri documenti processuali in precedenza sconosciuti, dati aziendali e scritture contabili provenienti dalle filiali di quattro continenti, offrono un quadro molto dettagliato sul business dell’evasione fiscale.
Dicevamo, nel caso dell’ acquisto della copia di Office a Bellevue Square, dopo aver pagato le tasse allo stato, l’azienda invia il ricavato alla controllata di Reno, in Nevada. Dopo lo sbarco in Nevada, più della metà del denaro va ad un’altra società con sede in Porto Rico. Tale società, dopo aver pagato una tassa locale del 2%, che rappresenta una quota dei costi della ricerca di Microsoft, trasferisce una parte del denaro rimanente ad una nuova società con sede in Irlanda.
L’ultima tappa è costituita da un’ulteriore società chiamata RI Holdings, la cui sede è situata presso lo studio legale a Hamilton, nelle isole Bermuda, territorio d’oltremare del Regno Unito in cui vige un’ imposta sulle società pari a zero.
Strutture simili coprono in tutto il mondo l’attività di Microsoft.
Dal 2001 al 2006 Microsoft ha portato a termine una serie di accordi aziendali con altri grandi gruppi industriali, in cambio di pagamenti anticipati, ottenendo così di poter spostare i diritti sul codice sorgente di alcuni software e altre entrate sviluppate in gran parte negli Stati Uniti, verso società controllate con sede nelle Bermuda, in Irlanda, a Singapore e a Porto Rico.
Secondo gli atti giudiziari e un’analisi dei documenti depositati dalla Microsoft, quegli accordi hanno consentito alla società di ridurre la sua fattura fiscale di alcune decine di miliardi di dollari. Microsoft possiede 108 miliardi di dollari di profitti custoditi in conti offshore. Questa è la prova della capacità della società nell’evitare di pagare non solo l’aliquota fiscale statunitense relativamente alta, ma anche l’ imposta sul reddito nel Regno Unito, in Germania e in altri paesi in cui vende i suoi prodotti.
Operazioni offshore
Il genere di architetture fiscali che Microsoft ha creato sono legali, e i rappresentanti dell’ azienda sostengono che questa paghi la giusta quantità di tasse nei paesi in cui opera.
“Noi serviamo clienti in centinaia di paesi in tutto il mondo e la nostra struttura fiscale riflette tale impronta globale”, ha fatto sapere la società attraverso un comunicato. Un portavoce ha osservato come la società abbia pagato 4,4 miliardi di dollari di imposte nel suo ultimo anno fiscale, ed ha aggiunto che l’aliquota fiscale pagata da Microsoft si trovava nel gruppo mediano delle società dell’indice S&P 500.
Secondo S&P Capital IQ, negli ultimi dieci anni il pagamento delle imposte di cassa di Microsoft ha in media un tasso effettivo del 21,7%.
Tale misura esclude le imposte differite in esercizi futuri mentre include alcune imposte versate una tantum, e comprende anche le imposte pagate sia agli Stati Uniti che ad altri governi. Tale aliquota pone la Microsoft al centro della classifica assieme ad altre imprese statunitensi di ITC.
Negli Stati Uniti l’aliquota federale di imposta sul reddito delle società è del 35%.
Guardando solo alle operazioni di Microsoft al di fuori degli Stati Uniti, tuttavia, in base ai dati da questa forniti, il tasso di imposta sulle società da questa pagato è stato del 4,5%. Esso è inferiore al tasso d’imposta in vigore in ciascuno dei paesi in cui l’azienda opera.
I governi di tutto il mondo hanno iniziato a prendere atto di quelle aziende che spostano i loro profitti per motivi fiscali. Gli accordi fiscali stipulati da Microsoft negli ultimi anni hanno attirato l’attenzione del fisco negli Stati Uniti, nell’Unione Europea, in Cina ed in Australia.
Cosa fanno le altre corporations
Anche altre multinazionali, con sede sempre nello Stato di Washington, hanno ridotto il loro carico fiscale pagando un’aliquota inferiore a quella vigente negli Stati Uniti.
Secondo i dati di S&P Capital IQ, negli ultimi dieci anni la Boeing ha versato imposte di cassa secondo un’aliquota media effettiva del 2,8%. Un portavoce della compagnia ha attribuito tale agevolazione alle detrazioni ed ai rinvii consentiti grazie ai costosi progetti di investimento e sviluppo, quali, tra gli altri, il progetto del 787 Dreamliner.
Nello stesso periodo, l’aliquota fiscale effettiva media di Amazon.com è stata del 10,7%, mentre Starbucks ha versato al fisco il 30,5%.
Entrambe le società rientrano tra gli obiettivi del giro di vite dell’Unione Europea su quello che le autorità di regolamentazione hanno definito come un accordo fiscale potenzialmente sleale, concluso con le autorità locali del Lussemburgo e dei Paesi Bassi. Un portavoce di Starbucks ha dichiarato di non essere d’accordo con la valutazione fatta dall’Unione Europea, aggiungendo come l’azienda paghi più tasse di quante ne paghi una tipica grande impresa negli Stati Uniti.
Alcune imprese e gruppi di pressione da queste finanziati sostengono che l’aliquota fiscale sugli utili applicata negli Stati Uniti sia troppo elevata, offrendo in tal modo un incentivo a spostare sede e posti di lavoro all’estero. Le società – sostengono – che hanno un dovere fiduciario verso i loro azionisti e gli individui, non dovrebbero essere biasimate quando fanno uso di manovre fiscali legali.
Per decenni i sistemi fiscali della maggior parte dei paesi sono stati molto chiusi, poichè le operazioni internazionali importanti che venivano concluse erano molto poche. Con la crescita internazionale delle imprese queste hanno cominciato a rendersi conto di come sia possibile, legalmente, risparmiare un sacco di soldi di tasse.
Per i politici ciò significa meno soldi nelle loro casse. Questo ha portato alla nascita di un movimento che combatte l’evasione fiscale delle imprese e cerca di riformare il sistema fiscale globale che favorisce le scappatoie.
Secondo Kimberly Clausing, un professore di economia al Reed College di Portland, lo spostamento dei profitti da parte dalle multinazionali è costato, nel 2012, al governo degli Stati Uniti tra i 77 e i 111 miliardi. Dalle ricerche condotte dal professore e’ emerso come l’uso da parte delle imprese dei paradisi fiscali mondiali abbia probabilmente ridotto le entrate del governo per oltre 280 miliardi di dollari.
La Creazione di barriere
Per poter ridurre il suo carico fiscale Microsoft ha investito decenni nella creazione di barriere tra il suo quartier generale di Redmond ed il denaro generato dalle vendite del software che li viene sviluppato.
I base a documenti societari tale attività è iniziata nel settembre del 1994, quando tre dei top manager di Bill Gates, specializzati nelle questioni tributarie e finanziarie, hanno apposto la loro firma sui documenti costitutivi della GraceMac Corp, con sede in Nevada.
A differenza degli altri uffici commerciali che Microsoft ha aperto in tutto il mondo in quel periodo, GraceMac non ha come scopo sociale quello di realizzare prodotti o di intraprendere iniziative imprenditoriali.
Il suo scopo, secondo la causa giudiziaria che vede Microsoft coinvolta, è stato quello di servire come una sorta di “scatola vuota” che questa avrebbe riempito con i proventi dei diritti di royalty relativi al software realizzato nello stato di Washington. GraceMac è stata gestita da Monte Miller, che, attraverso una società con base a Las Vegas, gestisce diverse holding in Nevada e nel Delaware, per conto di clienti che risiedono altrove.
Miller ha confermato la sua associazione con GraceMac, ma per il resto si è rifiutato di rilasciare commenti.
Nel decennio successivo Microsoft ha fondato almeno altre 55 filiali sempre nel Nevada, uno stato dove non esiste l’imposta sul reddito delle imprese. Tra queste anche un ufficio a Reno che sarebbe servito come sede legale per le vendite di Microsoft Windows. Le sedi nel Nevada hanno permesso a Microsoft di evitare di pagare quelle che sarebbero state tra le sue più salate fatture fiscali nello stato di Washington: la tassa sulla royalty del software. Secondo un’analisi fornita dalla compagnia, in oltre un decennio di vendite a clienti residenti fuori dallo stato, i risparmi sul conto fiscale della società sarebbero stati circa un centinaio di milioni di dollari.
Tuttavia non si è trattato di una strada a senso unico. Quest’anno Microsoft non ha fatto obiezioni quando l’amministrazione statunitense ha posto fine alla sospensione dell’ imposta sulle sue vendite, dovuta agli investimenti in tecnologia e sviluppo. Da tale sospensione il governo prevede di incassare da Microsoft 128 milioni di dollari in quattro anni.
Gli ostacoli alla tassazione ridotta sulle vendite
Durante la prima metà degli anni 2000, quando gli affari internazionali di Microsoft stavano crescendo rapidamente, la struttura del Nevada sembrava servire da modello per le sue operazioni realizzate su scala mondiale.
Microsoft ha creato una serie di centri di vendita che, in cambio del pagamento di una quota iniziale alla capogruppo, oltre al pagamento dei costi di ricerca e sviluppo, avrebbe acquisito il diritto al profitto realizzato dalla vendita del software Microsoft nella propria zona.
Il primo di questi centri è stato istituito nel 2001 in Irlanda, uno dei paesi con la più bassa aliquota fiscale nell’ Europa occidentale. Un altro centro venne realizzato nel 2004 nella città-stato centro asiatico del business di Singapore. L’anno successivo Microsoft ha convertito la sua unità di Porto Rico, un impianto per la produzione di CD costruito usufruendo di un credito d’imposta, in quello che sulla carta risultava essere centro di vendite per le Americhe.
Realizzando ufficialmente le sue vendite da luoghi con bassi livelli di tassazione e bassa densità di popolazione, Microsoft ha evitato di pagare la tassa di imposta sul reddito sulle vendite concluse nei paesi in cui vive la maggior parte dei suoi clienti. Le agenzie fiscali locali, in genere, ignorano le vendite delle società estere che non hanno una stabile organizzazione a livello locale.
E ciascuno dei tre punti vendita regionali di Microsoft è stato strutturato per spostare una parte dei profitti nelle Bermuda, il che significa una fetta del denaro delle vendite a clienti che risiedono in un serie di paesi che vanno dall’Australia alla Germania, non è tassato in quel territorio.
Come funziona la struttura di Microsoft nel Regno Unito.
Quando qualcuno compra una copia di Office a Londra, la stragrande maggioranza dei proventi della vendita lascia il paese prima che a Microsoft venga addebitata la tassa sul reddito delle società. Questo perché la società che detiene i diritti a vendere prodotti Microsoft in Inghilterra è una società di diritto irlandese.
Nell’anno fiscale 2014 Microsoft ha venduto circa 3,3 miliardi di dollari di prodotti a clienti del Regno Unito. La consociata locale della società ha pagato 33 milioni di dollari di imposte sul reddito, con un’aliquota approssimativa di circa il 3%, e tutto grazie a quella società con base in Irlanda. L’Organizzazione per la Cooperazione e lo Sviluppo, che sostiene e coordinare la politica economica tra le nazioni sviluppate, nel mese di ottobre ha proposto la più grande revisione del sistema fiscale globale degli ultimi decenni, uno sforzo per costringere le autorità di regolamentazione fiscali a fare in modo che il reddito imponibile delle imprese si allinei alla reale attività economica svolta dalle società in ciascun paese.
Un’altra raccomandazione è che le aziende, in modo spontaneo, forniscano ai governi informazioni sui luoghi in cui pagano le tasse e generano reddito.
Microsoft si è rifiutata di fornire di dettagli sulla ripartizione geografica dei ricavi e del carico fiscale della società.
L’economista del Reed College Clausing ha dichiarato che le imprese sostengono che si tratti di informazioni riservate. Ma forse il luogo nel quale si pagano le tasse non dovrebbe essere un elemento vitale nella strategia di business.
L’esigenza di un nuovo sistema fiscale
La realtà è che il sistema fiscale globale statunitense è il retaggio di un’epoca passata. Nei tempi andati il fatto che esso avesse carattere globale importava meno, sia perché gli Stati Uniti erano una parte importante dell’economia mondiale, e sia perché essere presenti negli USA rendeva le aziende più attraenti agli azionisti. Ma questi vantaggi stanno diminuendo. Oggi investire all’estero è più attraente e più facile che mai, e il capitale è più mobile. Mentre si riducono le differenze economiche tra gli Stati Uniti e gli altri paesi, uno studio del 2015 condotto sui sistemi fiscali ha portato alla conclusione secondo cui la capacità degli Stati Uniti di sostenere la propria condizione di eccezione fiscale è destinata a declinare.
E inoltre le aziende sono oggi molto meno legate al loro paese d’origine come lo erano una volta. Si guardi alla Pfizer. Il suo C.E.O. è nato in Scozia e cresciuto in Rhodesia. Oltre il sessanta per cento delle sue entrate proviene da oltreoceano, e la maggior parte dei suoi dipendenti lavora all’estero.
E ‘difficile immaginare che cosa renda una società come quella realmente americana.
È vero, molti comparti industriali statunitensi, tra cui big pharma, hanno pesantemente puntato sulla ricerca finanziata dal governo, ma le imprese straniere sono state capaci di trarre profitto da tale ricerca con la stessa facilità, senza dover subire un’ extra tassazione.
Sicuramente le società giocano la carta del patriottismo quando ciò fa comodo ai loro scopi. Ma la loro vera fedeltà risiede più in profondità. E mentre il Congresso potrebbe adottare delle misure per frenare nel breve periodo le inversioni fiscali, Hillary Clinton, ad esempio, ha proposto una rapida “tassa di uscita” ad ogni società che decide di praticare l’inversione, tali misure non fanno che rinviare un’ oramai necessaria riforma di sistema. (cm)
http://www.newyorker.com/magazine/2016/01/11/why-firms-are-fleeing