Il bandito Giuliano e la strage di Portella della Ginestra

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Il 18 ottobre del 1951 l’ on. Lelio Basso del partito socialista pronuncia alla Camera un discorso di cui pubblichiamo di seguito uno stralcio:

” Qui siamo in presenza di fatti che sfuggono alla competenza dell’autorita’ giudiziaria; qui non si tratta di sapere che cosa l’autorita’ giudiziaria dovra’ decidere; qui si tratta soltanto di sapere che cosa il ministro decide nei confronti di questi suoi funzionari che hanno prevaricato, che hanno tenuto affettuosa corrispondenza con i banditi a banchetto, che hanno rilasciato documenti falsi affinche’ essi potessero liberamente circolare, che hanno addirittura, come il capitano Perenze, ospitato in casa propria uno di questi, e cio’ non perche’ questi dovesse rendergli dei servigi, ma quando aveva gia’ reso tutti i servigi che doveva rendere. E’ su questi elementi che l’ on. ministro avrebbe dovuto rispondere, e’ su questi elementi che noi ci attendavamo che egli rispondesse”.

Il ministro al quale Lelio Basso si rivolge e’ quello dell’Interno, on.Mario Scelba, e l’antefatto che fa da sfondo e’ quello della strage di Portella della Ginestra. Avvenuta il 1° maggio del 1947 durante un comizio organizzato dal blocco popolare per festeggiare la festa del lavoro, in vista del lancio di una campagna di occupazione delle terre incolte, blocco che veniva da un’ inattesa vittoria alle elezioni regionali del 1947 (29% dei voti). Della strage, nella quale morirono 11 contadini ed altri 65 rimasero feriti, venne ritenuta responsabile la mafia, in combutta con il bandito Salvatore Giuliano.

Si trattava della prima strage di Stato, in cui pezzi delle istituzioni ed esponenti autorevoli della mafia avevano tentato di scoraggiare l’attivismo politico delle masse contadine, lanciando un messaggio forte e chiaro su quale sarebbe stata la risposta dello Stato e dei poteri che governavano allora la Sicilia. A seguito della strage e di altri fatti delittuosi che avevano insanguinato l’isola, come l’attentato ordinato dal capo mafioso Calogero Vizzini contro il parlamentare comunista Girolamo Li Causi e quello contro il socialista Michele Pantaleone il 16 dicembre del 1944 durante un comizio, o come gli assassinii dei sindacalisti agrari Epifanio Li Puma, Placido Rizzotto e Calogero Cangelosi, le opposizioni parlamentari avevano ripetutamente chiesto nel corso delle prime quattro legislature l’istituzione di una Commissione parlamentare d’inchiesta.

L’esigenza veniva dalla necessità di conoscere più approfonditamente non solo i fenomeni della mafia e del banditismo, strettamente legati poiche’ senza il permesso della prima il secondo non sarebbe potuto esistere, ma anche alcune vicende legate alla proprieta’ terriera, agli appalti pubblici, al collocamento dei lavoratori, agli istituti di assistenza e a quelli di credito, giacche’ era piu’ volte emerso trattarsi degli ambiti di potere considerati territorio di conquista delle cosche mafiose.

L’ on. Li Causi aveva inoltre gia ‘ da tempo denunciato, attraverso interventi in aula, l’esistenza di legami evidenti tra la mafia siciliana e il gangsterismo italo-americano, con la presenza sul territorio della penisola di boss mandati al confino o espulsi dagli Stati Uniti del calibro di Frank (tre dita) Coppola, Frank Costello e Lucky Luciano.

Tutti e tre i boss di Cosa nostra americana venivano lasciati indisturbati dalle autorita’ italiane a svolgere tranquillamente i loro traffici di eroina tra l’Italia e gli Stati Uniti.

Il 14 luglio 1950 i giornali annunciano la morte, dopo anni di latitanza, del bandito Giuliano a seguito di uno scontro a fuoco con i Carabinieri. O almeno questa sara’ la versione ufficiale sostenuta dal governo e dalle forze dell’ordine. Unica voce stonata rispetto al coro delle voci mediatiche è quella dell’inviato del settimanale l’Europeo, Tommaso Besozzi, il quale detta per telefono alla sua redazione un pezzo che fara’ la storia del giornalismo italiano, dal titolo: “Di sicuro c’e’ solo che e’ morto”.

Nell’articolo il giornalista scrive come la scena del crimine data in pasto alla stampa, in quel piccolo patio del piccolo comune siculo di Castelvetrano, sia solo una messa in scena ricostruita dai Carabinieri e che Giuliano era stato preso grazie al tradimento del suo fidato braccio destro nonche’ cugino, Gaspare Pisciotta. Quest’ultimo morira’ avvelenato in carcere da un caffe’, la stessa sorte che toccherà qualche anno più tardi a Michele Sindona.

Le circostanze a cui fa riferimento l’on. Basso nel suo intervento alla Camera riguardano il lungo periodo di latitanza di cui ha potuto godere Giuliano, a partire dal suo primo omicidio commesso ad appena 21 anni, quello del carabiniere Antonio Mancino, avvenuto nel settembre 1943.

Secondo le risultanze del processo in corte d’assise svoltosi a Viterbo, in un arco di tempo di 7 anni ( 1943-1950)  il curriculum criminale di Giuliano viene segnato da 430 omicidi, in gran parte appartenenti alle forze dell’ordine, commessi in prevalenza durante gli scontri relativi al periodo dell ‘indipendentismo siciliano nell’ immediato dopoguerra, periodo che valse al bandito i galloni di tenente colonnello, comandante dell‘Esercito Volontario Indipendentista Siculo (EVIS).

Omicidi, dunque, ma non solo. Anche rapine e sequestri di persona, commessi ai danni di ricchi agricoltori, commercianti e imprenditori, che fruttano a Giuliano e alla sua banda ingenti risorse economiche (si parlava allora di un miliardo di lire).

L’impegno indipendentista convinto (nel 1946 il MIS abbandona l’illegalita’ per partecipare alle elezioni per l’Assemblea Costituente ) anche da parte della sua famiglia, sia nelle elezioni politiche del 1946 che in quelle regionali del 1947, valgono a Giuliano l’appoggio dell ‘ on. Antonio Varvaro del Movimento Indipendentista Siciliano Democratico Repubblicano (MISDR), ma soprattutto gli consentono di beneficiare a pieno titolo dell’amnistia, concessa nel 1946 dal governo italiano per i reati politici.

Malgrado cio’ Giuliano e la sua banda proseguiranno indisturbati le loro azioni di brigantaggio, fino ad arrivare alla strage di Portella.

Tra le coperture e le complicita’ di cui Giuliano ha potuto godere durante tutto il suo periodo di latitanza, citiamo per prima la mafia. In particolare i boss di Monreale Ignazio Miceli e Benedetto Minasola, ma anche i boss Nino Marotta e Domenico Albano, che fecero da tesorieri nonche’ da carcerieri per le persone sequestrate dal bandito e dalla sua banda.

Sia Gaspare Pisciotta, sia i mafiosi Tommaso Buscetta e Gaspare Mutolo hanno testimoniato in giudizio che Giuliano era stato affiliato alla mafia mediante il rito tradizionale, divenendo lui stesso uomo d’onore.

Ma come sottolineato da Basso nel suo intervento, Giuliano ha potuto godere di ben altri appoggi, politici soprattutto. Nella relazione della Commissione parlamentare antimafia della 5a legislatura, avente ad oggetto i legami tra la mafia ed il banditismo in Sicilia, emerge come Giuliano in una lettera inviata al quotidiano del partito comunista l’Unita’ abbia rivelato di avere avuto rapporti diretti con il ministro dell’Interno, on. Mario Scelba.

Sempre dagli atti della Commissione parlamentare antimafia della 5a legislatura, dal testo dell’audizione del colonnello dei carabinieri Antonio Perenze nella seduta del 22 maggio 1969, alla domanda del commissario Bernardinetti secondo cui risultava agli atti che il colonnello Ugo Luca fosse entrato in contatto con Gaspare Pisciotta attraverso il mafioso Benedetto (Nitto) Minasola, Perenze risponde di non avere mai avuto a che fare con quella persona,  essendo stato il colonnello Luca a mantenere tale contatto. Tuttavia il Perenze non esclude che il Minasola fosse mafioso, e comunque di essere venuto a conoscenza di ciò solo in un secondo momento. E ancora.

Il commissario Tuccari chiede a Perenze di raccontargli qualche particolare della trattativa tra Luca e Pisciotta, trattativa che condurra’ poi all’uccisione, da parte di Pisciotta, di Giuliano. In particolare Tuccari accenna al rilascio di salvacondotti al Pisciotta, come premio per il suo tradimento di Giuliano. Perenze risponde che quello di Pisciotta fu solo l’ultimo degli episodi di trattativa, e che prima di quello ve ne erano stati tanti altri. Infine, quando Tuccari chiede a Perenze se avesse assistito il colonnello Ugo Luca nel corso della trattativa con Pisciotta, Perenze risponde di essersi adoperato direttamente con Pisciotta, essendo rimasto solo con lui, ospitandolo nella sua casa per diversi giorni per cercare di conoscere da lui quanti piu’ elementi possibili.

Perenze poi racconta di come fosse stato Pisciotta, violando il patto stretto con il colonnello Luca di consegnarlo vivo, ad uccidere Giuliano in quanto, a suo dire, qualcuno aveva rivelato a Giuliano che Pisciotta lo aveva venduto. L’incolumità del Pisciotta veniva dunque messa a serio rischio. La messa in scena della sparatoria, racconta Perenze, aveva lo scopo di salvare Pisciotta da eventuali rappresaglie ed inoltre, non potendo contare piu’ sulla collaborazione di Giuliano, serviva a garantire quanto meno quella del Pisciotta.

Per il tradimento di suo cugino Pisciotta avrebbe ottenuto anche dei soldi, con i quali assicurarsi un buon avvocato. Alla domanda del commissario Bernardetti su cosa avesse da dire in merito a quanto emerso dal processo di Viterbo secondo cui Pisciotta aveva ricevuto una dichiarazione di benservito, di elogio, con la firma non autografa del ministro dell’Interno Mario Scelba, dunque un trabocchetto per spingere Pisciotta a collaborare, Perenze risponde con un: “Mai saputo”, scaricando ogni eventuale responsabilita’ sul colonnello Paolantonio.

Perenze rivela inoltre come il tesserino di confidente, con la firma non autografa del ministro dell’Interno, venisse rilasciato genericamene a tutti i collaboratori.

Infine alla domanda del Commissario Tuccari sulla provenienza dei documenti ritrovati sul cadavere di Giuliano, documenti consegnati in base alle risultanze processuali dal colonnello Luca, Perenze esclude nel modo piu’ assoluto la circostanza, dichiarando di non avere rinvenuto negli indumenti di Giuliano alcun documento.

Anche gli appunti personali di Giuliano, rinvenuti secondo le risultanze processuali tra i suoi indumenti, non verranno mai più ritrovati. Infine Perenze rivela che su tutto quanto era realmente accaduto a proposito di Giuliano e sulle reali modalità della sua morte era sempre stato tenuto informato il procuratore generale dott. Pili. (cm)

Il rapimento Moro e il ruolo delle principali organizzazioni criminali

A Moro

A seguito del rapimento del presidente della Democrazia Cristiana Aldo Moro, nel corso dei 55 giorni di prigionia diverse organizzazioni criminali furono incaricate di individuare il covo in cui questi veniva tenuto segregato. Furono cosi’ contattati autorevoli referenti che, attraverso gli agganci di cui disponevano in loco, si pensava potessero risalire alla prigione in cui l’ex presidente del consiglio era stato imprigionato. Ma nonostante l’impegno tutti i tentativi esperti vennero ad un certo punto interrotti.

Raffaele Cutolo e la NCO

Il primo e più famoso di questi autorevoli referenti è stato Raffaele Cutolo, capo della Nuova Camorra Organizzata. Nel 1987 Cutolo racconta per la prima volta ad alcuni giornalisti di essere stato incaricato, tramite il suo avvocato, da alcuni esponenti della DC di vedere se era possibile aprire un canale di trattativa con i brigatisti che avevano sequestrato Aldo Moro. Cutolo contatta il suo uomo di fiducia su Roma Nicolino Selis, uno dei fondatori della Banda della Magliana, al quale chiede di scoprire il luogo in cui si trovava il covo in cui veniva custodito lo statista democristiano. Dopo alcuni giorni Selis scopre che la prigione di Moro si trovava in un appartamento situato in un condominio di via Gradoli. Cutolo quindi contatta il suo avvocato, ma il suo braccio destro nonché collaboratore dei servizi Vincenzo Casillo gli consiglia di lasciar perdere e di non interessarsi più alla faccenda. Qualche anno più tardi, nel 1994, intervistato dal giornalista Giovanni Minoli Cutolo rivela che, una volta individuata la prigione di Moro in via Gradoli, si mise ad organizzare un blitz per la sua liberazione.

Alcuni anni dopo il giudice istruttore Otello Lupacchini, nel scorso del processo alla Banda della Magliana, interrogando Maurizio Abbatino viene a sapere che effettivamente Cutolo era stato incaricato da alcuni esponenti della DC di trovare il covo in cui veniva tenuto prigioniero Moro. Nel 1993 Lupacchini interroga Cutolo il quale conferma le dichiarazioni di Abbatino, aggiungendo che il suo avvocato, Francesco Cangemi, gli disse che quelli della DC lo avevano avvisato di lasciar perdere.

Tommaso Buscetta e Cosa nostra

Nel 1993 Tommaso Buscetta racconta ad un magistrato che, durante i 55 giorni del rapimento di Moro, venne contattato da un tal Ugo Bossi, che gli chiese di interessarsi per attivare un canale di trattativa con i brigatisti reclusi nel carcere di Torino.

Buscetta racconta però di non avere potuto fare nulla poiche’non era riuscito ad ottenere il suo trasferimento dal carcere di Cuneo a quello del capoluogo piemontese, dove i brigatisti erano reclusi.

Interrogato dai magistrati nell’aprile del 1993 Ugo Bossi racconta che durante i giorni del sequestro Moro Frank Coppola, l’anziano boss italo americano al confino a Pomezia, si recò a Milano per visitarlo. In quell’occasione Coppola ebbe modo di dirgli di lasciar perdere la faccenda della liberazione di Moro, in quanto si trattava di una questione troppo complicata per la quale lui non avrebbe potuto fare nulla.

Nel luglio del 1991 il pentito Francesco Marino Mannoia racconta ai magistrati che lo interrogano, che durante il sequestro di Moro Stefano Bontade si era interessato per ottenere la liberazione dell’ex presidente del consiglio. Della cosa poi non se ne fece più nulla, dopo che Pippo Calò gli disse che alcuni membri della DC molto influenti non volevano che Moro fosse liberato.

Francesco Varone e la ‘ndrangheta

Nel luglio del 1988 il neofascista Vincenzo Vinciguerra, condannato all’ergastolo per la strage di Peteano, racconta ai magistrati che tal Francesco Varone detto Rocco il Calabrese aveva ricevuto l’incarico dall’esponente della DC on. Cazora di individuare il covo in cuoi le Br tenevano custodito Aldo Moro. Dopo alcuni giorni Varone, invitato a Pomezia a casa del boss Frank Coppola, viene convinto da questi e da altri boss presenti a lasciar perdere, che tanto i soldi che gli erano stati promessi per l’incarico glieli avrebbero dati ugualmente. Quando Varone chiede il perché di questo gli viene risposto che c’erano alcuni esponenti della DC che non volevano che Moro fosse liberato: “Quell’uomo deve morire”.

Al di la della mancanza di riscontri oggettivi relativi ad alcune di queste dichiarazioni,  ovvero alla mancanza di una reale volontà da parte di alcuni esponenti della DC di ottenere la liberazione di Moro, appare comunque sconcertante come diverse organizzazioni criminali, tutte indipendenti tra loro, abbiano ricevuto l’incarico di individuare la prigione in cui veniva tenuto prigioniero lo statista democristiano.

Appare ugualmente fonte di sconcerto scoprire come ai tentativi in questione sia stata posta fine sia a seguito di fattori interni alle varie organizzazioni, che a fattori esterni derivanti da altre ragioni.  Fin dall’inizio della vicenda Moro la posizione della maggioranza al governo, e segnatamente della DC, fu quella di non trattare con le BR quali che fossero le loro richieste. Diversa fu invece la posizione dei socialisti e di altre forze politiche dell’arco costituzionale. La fermezza di questa posizione si contrappone in maniera stridente con la diversa posizione trattativista che lo stesso partito democristiano tenne qualche anno più tardi, nel 1982, in occasione del rapimento dell’assessore regionale della Campania, Ciro Cirill, rapimento eseguito anch’esso dalle BR.

Cirillo verrà liberato grazie all’intervento del Sifar, e soprattutto a seguito del riscatto pagato alle BR. Un ruolo particolare in questa vicenda viene svolto dal brigatista Giovanni Senzani, rinchiuso in carcere come Cutolo. Senzani cercò subito un’interlucuzione con i rapitori ma al tempo stesso cerco’di organizzare un consenso attorno a tale iniziativa, attraverso la costituzione del Fronte delle carceri. Grazie a questo intervento Senzani si intaschera’ una cifra pari allora a 500 milioni di lire.

La Commissione stragi e la “zona grigia”

La Commissione stragi della dodicesima legislatura rileva nella sua relazione conclusiva che “Non si può omettere di osservare che la concordanza delle varie fonti è davvero impressionante e tale da poter fondare in termini di elevatissima probabilità la convinzione che inizialmente la criminalità organizzata si sia attivata e sia stata attivata dall’esterno per favorire la liberazione di Moro: e che tale intervento si sia arrestato per valutazioni interne alla criminalità organizzata e per input esterni probabilmente coincidenti. Analogamente impressionante è la convergenza di tali indicazioni verso la individuata “zona grigia” e cioè verso l’intreccio fitto – e non ancora disvelato –  di ambigui rapporti che legarono in ambito romano uomini di vertice delle organizzazioni mafiose e della criminalità locale al mondo di un oscuro affarismo, ad esponenti politici, ad appartenenti della loggia P2 ( autorevolmente indicata come luogo di oltranzismo atlantico ), a settori istituzionali, in particolare dei servizi”.

(cm)

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