Il neofascista che aiutò Falcone

E’ il 13 febbraio del 1977 quando l’ex comandante dell’ala militare di Ordine Nuovo, Gianluigi Concutelli, viene arrestato in un appartamento al centro di Roma in via dei Foraggi.
Nel covo del terrorista viene ritrovata una notevola quantità di armi, tra cui un mitra Ingram M10 con silenziatore uguale a quello impiegato nell’omicidio del giudice Vittorio Occorsio, oltre a dell’esplosivo e a undici milioni di lire provenienti dal riscatto relativo al rapimento di Emanuela Trapani.
Figlia dell’amministratore delegato della Hellen Curtis, la ragazza era stata tenuta segregata per quaranta giorni e quindi liberata a seguito del versamento di un riscatto che si sarebbe aggirato tra i dieci e i venti miliardi di lire.
Il capo della banda dei rapitori Renè Vallanzasca, sul quale pendevano già tre ergastoli, era statato l’unico del gruppo ad essersi mostrato alla giovane privo di passamontagna.
Chiamato a deporre al processo contro Ordine Nuvo, Vallanzasca ribadirà la stessa versione fornita da Concutelli, ovvero che pur non conoscendo l’ordinovista (lo conoscerà solo in seguito, in carcere), nè avendo mai fatto parte o sostenuto economicamente ON, quei soldi erano finiti a Concutelli in quanto quest’ultimo aveva ricevuto l’incarico di trovare une serie di appartamenti a Roma per la banda del criminale lombardo. Quei milioni costituivano dunque gli affitti e i depositi per gli immobili locati.
C’è un nome tuttavia che svolge in quell’epoca, dal 1977 al 1980, un ruolo di catalizzatore tra terrorismo nero e delinquenza comune: Aldo Semerari.
Eminente psichiatra forense, dotato di un certo peso all’interno della procura romana essendo amico personale dell’allora procuratore capo Giovanni De Matteo, amicizia emersa in occasione dell’omicidio del sostituto procuratore Mario Amato, Semerari è stato una sorta di puparo per conto di Licio Gelli e della Loggia P2.
Perito di parte per conto di diversi esponenti della Banda dell Magliana, avendo fatto ottenere perizie di infermità mentale e quindi di incompatibilità col carcere ad Alessandro d’Ortenzi, Nicolino Selis e Marcello Colafigli, Semerari aveva ricoperto lo stesso incarico anche per conto di importanti figure della criminalità quali lo stesso Vallanzasca, Franco Giuseppucci, Jacques Berenguer e Albert Bergamelli.
Stando a quanto riferito da Fulvio Lucoli, ex Banda della Magliana, Semerari propose a D’Ortenzi di collocare alcune bombe e di compiere una serie di rapimenti di persona, fornendo anche un elenco di nominativi di eventuali obbiettivi.
In cambio Semerari si proponeva di fare uscire dal carcere gli eventuali responsabili in caso di arresto, attraverso false perizie psichiatriche.
Nella sua villa di Poggio Mirteto Semerari incontrava, di volta in volta, ex appartenenti della Banda della Magliana, ex ordinovisti, dirigenti di Costruiamo l’Azione e del suo braccio armato Movimento Rivoluzionario Popolare, oltre ad appartenenti ai Nuclei Armati Rivoluzionari.
Secondo il malavitoso romano Paolo Bianchi “I nomi Vallanzasca-Concutelli rispettivamente in rapporto con Semerari nel periodo 1979-1980, sono significativi per il fatto che in quell’epoca, o meglio fin dai primi mesi del 1977, stabilirono un’intesa, assieme agli avvocati Arcangeli e Vitale, diretta a perseguire il medesimo disegno politico, che realizzasse nello stesso tempo gli interessi della delinquenza comune e di quella con finalità eversive; di tale progetto parlerò più diffusamente in un mio memoriale”.
Oltre all’arsenale, nell’appartamento di Concutelli gli inquirenti trovarono tutto l’occorrente per stampare volantini siglati Ordine Nuovo.
Come quelli lasciati sul luogo in cui venne ucciso Occorsio per rivendicarne la responsabilità.
Lo stesso Concutelli aveva ripetuto agli agenti che lo avevano arrestano che ad uccidere il sostituto procuratore in forze presso la procura di Roma sarebbe stato Ordine Nuovo.
L’immobile in cui Concutelli si nascondeva risulterà affittato a nome di Mario Rossi, un giovane neofascista di 21 anni che svolgeva il ruolo di collegamento con l’esterno per conto del terrorista nero.
Quando venne ucciso, il vice procuratore Occorsio stava indagando sui rapporti tra il mondo dell’eversione nera e tutta una serie di rapimenti avvenuti in Italia tra il 1974 e il 1976.
In particolare il magistrato aveva cominciato ad indagare sul conto dell’avvocato Gian Antonio Minghelli, che oltre a svolgere l’attività forense era anche segretario della loggia P2, ed aveva uno studio professionale situato proprio sopra la boutique del gioielliere Gianni Bulgari, una delle vittime dei citati sequestri.
Durante il rapimento del giovane ingegnere chimico Carlo Saronio, appartenente all’omonima famiglia di industriali farmaceutici e per il quale sarebbe stato pagato un riscatto di 470 milioni ma che non farà mai ritorno a casa ucciso dai suoi rapitori con una dose eccessiva di barbiturici, venne fermato dalla polizia a Roma per un banale controllo di documenti il braccio destro di Vallanzasca, Rossano Cochis.
Assieme a lui nella Porsche si trovavano il malavitoso romano Paolo Bianchi, e il neofascista milanese Giovanni Fecorelli.
Il fermo avveniva poco tempo prima dell’arresto di Concutelli.
Molto probabilmente il gruppo era stato a trovare l’ex ordinovista per consegnargli gli undici milioni pattuiti per la messa a disposizione di una serie di covi nella disponibilità di ON.
Nel corso del processo a Ordine Nuovo Concutelli rivelerà di avere progettato un attentato ai danni del sostituto procuratore di Firenze Pierluigi Vigna, che all’epoca stava indagando sull’uccisione del collega Occorsio.
Attraverso i numeri di matricola del mitra Ingram trovato nel covo di Concutelli, Vigna era riuscito a ricostruire la provenienze di quell’arma, facente parte di una commessa consegnata dall’azienda produttrice statunitense al Ministero della Difesa spagnolo.
Nell’appartamento in uso all’ ex ON gli inquirenti trovarono anche il biglietto da visita del noto rapinatore francese Albert Spiaggiari.
Il “braqueur” aveva fatto parte della banda che aveva portato a termine il “colpo del secolo”, una rapina da 15 miliardi di franchi ai danni della banca Societè General di Nizza.
Nella sua biografia “Io l’uomo nero” Concutelli racconta di essersi recato a Nizza dalla Spagna, in cui stava trascorrendo la sua latitanza, per assistere ad un concerto dei Rolling Stones. E’ probabile che in quell’ occasione l’ex ordinovista sia entrato in contatto con esponenti del “mileu” transalpino.
In libertà vigilata nel 1975, dopo aver fallito l’elezione al consiglio comunale di Palermo nelle liste del MSI, Concutelli fugge in Spagna sotto la protezione del caudillo Francisco Franco, dove già si trovavano numerosi neofascisti italiani latitanti. Con lui anche Stefano Delle Chiaie, con il quale incontrerà a Nizza Paolo Signorelli, nel tentativo di portere a termine il progetto di riunire quel che restava di Ordine Nuovo e Avanguardia Nazionale.
Concutelli è stato anche processato e assolto assieme a Delle Chiaie per il tentato omicidio ai danni del presidente della DC cilena Bernardo Leighton e di sua moglie, entrambe in esilio a Roma.
Qualche tempo dopo si scoprirà che nell’appartamento sovrastante a quello abitato dalla coppia cilena, presso il residence Aurelio, abitava il noto criminale di origini francesi Albert Bergamelli. Le indagini successive al fallito attentato e relative all’arresto del boss italo-francese rivelarono che dal suo appartamento erano stati effettuati una serie di fori in corrispondenza del soffitto delle varie stanze di quello abitato dai due coniugi cileni. La coppia di esuli era stata dunque costantemente spiata e controllata durante tutto il periodo che precedette l’attentato ai loro danni.
Ma per scoprire quale fosse la natura della cospirazione dietro al loro tentato omicidio occorrerà attendere la cattura dell’unico responsabile arrestato. Stiamo parlando di Michael Townley, cittadino statunitense, ex appartenente alla CIA oltre che alla Dina, la polizia politica cilena. Processato per l’omicidio dell’ex ministro degli esteri durante il governo di Salvador Alliend, Orlando Letellier, ucciso assieme alla sua segretaria da una bomba piazzata nella sua vettura il 21 settembre 1976 a Washington, Townley rivelerà agli inquirenti che i tre omicidi, in realtà due omicidi e un tentato omicidio, di Leighton, Letellier e di Carlos Prats, quest’ultimo comandante in capo dell’esercito cileno e in seguito ministro della Difesa, erano tutti tra loro collegati.
Il responsabile delle operazioni, rientranti nella più vasta missione denominata Piano Condor che coinvolgeva l’intero sudamerica, era stato il capo della Dina cilena Manuel Contrera. Nelle varie azioni portate a termine dalla giunta militare cilena erano stati conivolti oltre ad alcuni neofascisti italiani tra cui Delle Chiaie, Maurizio Giorgi, Augusto Cauchi e Sandro Saccucci, anche alcuni esuli cubani anticastristi.
Saranno le rivelazioni di Vincenzo Vinciguerra e dello stesso Concutelli a svelare il ruolo avuto da Junio Valerio Borghese nel presentare Delle Chiaie al dittatore cileno Augusto Pinochet, e in seguito al capo della Dina Contrera.
L’Operazione Condor fu dunque il frutto di un accordo tra alcune delle più sanguinarie dittature sudamericane, e in particolare dei loro servizi segreti militari, e l’amministrazione statunitense allo scopo di colpire tutti gli oppositori politici, inclusi quelli che avevano lasciato il loro paese per timore di ritorsioni. Oltre ad essere stato condannato dalla giustizia americana, nel 1987 Townley verà condannato a quindici anni anche dalla Corte d’Assise di Roma. Quache anno più tardi, nel 1995, saranno condannati anche Contreras e Neumann Iturriaga, con quest’ultimo il responsabile esteri della Dina, rispettivamente a 20 e 18 anni di carcere.

L’attentato all’Addaura e le indagini sull’omicidio Mattarella
Se è vero che a piazzare all’Addaura le 58 cartucce di pulverulento nitroglicerinato Brixia B5 sarebbero stati dei “picciutteddi”, con l’esplosivo fornito da Totò Riina a Salvatore Biondino e poi da questi ad Antonino Madonia, è evidente come la successiva campagna di delegittimazione ai danni di Giovanni Falcone che seguì quell’attentato facesse parte di un disegno molto più ampio, un progetto che Falcone aveva individuato definendo i suoi autori come delle “menti raffinatissime”.
Per l’attentato all’Addaura sono stati condannati in via defintiva Totò Riina, Antonino Madonia e Salvatore Biondino, e qualche anno più tardi anche Vincenzo e Angelo Galatolo.
Già i collaboratori Angelo Fontana e Vito Lo Forte avevano parlato della presenza all’Addaura di uomini dei servizi segreti, anche se le verifiche sui vari DNA ritrovati sul luogo non riuscirono a confermare tali rivelazioni.
Le indagine che seguirono alle varie missive firmate dal “corvo”, tendenti a delegittimare oltre a Falcone anche l’allora capo dell’anticrimine Gianni De Gennaro per un presunto ruolo dell’allora braccio destro del boss Stefano Bontate, Totuccio Contorno in funzione anticorleonese, misero in evidenza in quella vicenda l’attività svolta dagli ambienti neofascisti, oltre che dalla massoneria e in particolare dalla P2.
Tutto parte dalle indagini svolte da Falcone sul delitto Mattarella. Falcone aveva chiesto ed ottenuto la collaborazione del neofascista Concutelli, e attraverso le sue confidenze aveva riempito pagine e pagine di quaderni.
Concutelli si era trasferito da giovane con la famiglia in Sicilia, militando prima nel Fronte Nazionale di Borghese quindi nel Fuan e in ultimo in Ordine Nuovo. Era dunque la persona adatta a ricostruire la situazione politica che aveva preceduto quel delitto eccellente. Decisive in tal senso sarebbero state le sue confidenze sugli intrecci tra mafia e terrorismo nero. Concutelli non era solo il capo dell’ala militare di ON. Falcone aveva scoperto l’affiliazione di Concutelli alla loggia Camea, una filiazione diretta della P2 in Sicilia. Nel luglio del 1975 viene rapito a Lecce l’ex banchiere Luigi Mariano. La richiesta dei rapitori ai familiari di Mariano è di 280 milioni di lire. La polizia riesce ad arrestare un componente della banda, Luigi Martinesi, procuratore legale vicino al MSI ed ex aiutante del deputato Clemente Manco. Attraverso le indagini su Martinesi gli inquirenti arrivano a Concutelli. Lo accusano di essere la persona che materialmente aveva incassato i 280 milioni del riscatto, oltre ad avere avuto un ruolo di primo piano nel loro riciclaggio. Nell’ottobre di quello stesso anno Concutelli riesce a fare perdere le sue tracce. La ricostruzione del percorso compiuto da quei 280 milioni si deve agli inquirenti che hanno indagato sull’omicidio Occorsio. Quel riscatto era stato versato su di un conto presso la filiale londinese della Universal Banking Corporation, banca anomala già coinvolta in precedenza in vicende analoghe.
Ma non era la sola. Il sostituto procuratore di Firenze Vigna e il suo collega Pappalardo trovarono tracce di quei denari anche in Svizzera.
Ancora una volta è Concutelli a finire al centro delle indagini, in quanto titolare di due conti presso due banche svizzere, a Basilea e a Zurigo.
Si trattava dei conti utilizzati dalla galassia neofascista per riciclare i soldi frutto di rapine e sequestri di persona.
Vigna e Pappalardo incontrarono in Svizzera il giudice Renato Walty, che aveva indagato in precedenza sui conti svizzeri appartenenti alla malavita internazionale. Alcuni giorni prima dell’omicidio Occorsio, Walty era giunto nella Capitale per incontrare il collega romano.
Il magistrato elvetico aveva parlato a lungo con Occorsio prima di incontrare un altro suo collega che aveva svolto diverse indagini sui rapimenti avvenuti in quel periodo nel Lazio, Ferdinando Imposimato. Quest’ultimo in particolare si era occupato dei sequestri di Gianni Bulgari, di Alfredo Danesi e di Amedeo Ortolani.
Le indagini avevano messo in luce i legami tra i neofascisti, la banda dei marsigliesi e l’avvocato Minghelli, cioè la P2.
Concutelli, non si sa come, era venuto a conoscenza degli elementi rilevanti del lavoro di Occorsio, tanto da tentare un incontro con il giudice Walty presso l’hotel in cui questi alloggiava.
Grazie ai nuovi elementi investigativi Falcone era riuscito a fare imprimere all’inchiesta Mattarella, fino a quel momento rimasta ferma, una nuova spinta. Gli inquirenti avevano in programma di emettere nuovi mandati di cattura nei confronti di alcuni esponenti della galassia neofascista.
Tutto questo, più di ogni altra cosa, sembra essere stato motivo sufficiente a giustificare l’ondata di delegittimazione e di discredito che investì Falcone a seguito dell’attentato all’Addaura.
La conferma di ciò arriva dall’allora capo della polizia Vincenzo Parisi, che dopo essere stato interrogato dai magistrati di Caltanissetta che indagavano sul corvo, aveva detto alla stampa che la regia ispiratrice di quell’attentato era la mafia, che intendeva bloccare le nuove indagini avvite su impulso di Falcone. Parisi aveva accennato ad un tentativo di fermarle, di incepparle “contro i boss, contro i responsabili delle grandi operazioni di riciclaggio di denaro sporco, contro i legami tra la mafia e l’eversione”.
Parisi aveva proseguito affermando che non esisteva alcun caso “Contorno”, ma che si era trattato di un’operazione di polizia condotta nella legalità.
Riguardo al corvo Parisi consigliava di mantenere una certa cautela, posto che il supposto denigratore poteva essere stato vittima inconsapevole dell’intossicazione dell’informazione, nel tentativo di svolgere un servizio in favore della giustizia.
Coloro i quali avevano operato attraverso insinuazioni e discredito nei confronti del magistrato palermitano erano dunque gli stessi che, secondo l’allora capo della polizia, avevano ucciso il Presidente della Regione Sicilia, assieme al segretario regionale del PCI Pio La Torre e al prefetto Carlo Alberto Dalla Chiesa.
Anche De Gennaro, interrogato dai magistrati, aveva riferito alla stampa che il caso Contorno “non esiste”, “è un invenzione”.
Sollecitato dai giornalisti su un eventuale tentativo di bloccare le indagini sul riciclaggio e sul delitto Mattarella, De Gennaro aveva risposto che “sono entrambe buoni motivi”.
Il procuratore capo di Caltanissetta Salvatore Celesti aveva quindi inviato una comunicazione di garanzia al sostituto procuratore a Palermo Alberto Di Pisa, il sospetto corvo, per calunnia aggravata.
In quel periodo l’agenzia Ansa rivelo’ che in occasione di una visita al carcere di Vasto, avvenuta la settimana che precedette l’attentato all’Addaura, la Guardia di Finanza aveva scoperto all’interno di un casolare abbandonato poco distante dall’istituto penitenziario abbruzzese alcune cartucce da lupara, assieme a proiettili corazzati, razzi segnalatori, oltre ad un certo quantitativo di esplosivo.
Falcone si era recato a Vasto per incontrare il cugino di Contorno, Gaetano Grado, appartenente anche lui ad una delle famiglie perdenti nella guerra di mafia.
Il viaggio del magistrato era stato tenuto segreto fino all’ultimo, anche se la scorta imponente oltre alla presenza di un elicottero avevano fatto ipotizzare una visita importante. I baschi verdi ritennero plausibile l’ipotesi di un progetto di attentato non andato poi in porto ai danni di Falcone.
CM

Londongrad

Il 4 marzo 2018 l’ex operativo del KGB Sergei Skripal viene trovato assieme alla figlia Yulia in condizioni critiche sulla panchina di un parco pubblico della cittadina inglese di Salisbury.
Ad avvelenarli un agente nervino altamente tossico, il Novichok A234, sviluppato dai laboratori russi tra il 1970 e il 1980. Tracce dell’agente nervino venivano trovate all’interno di una bottiglia di profumo, gettata in un cestino dei rifiuti poco distante. Una terza vittima, che aveva raccolto la bottiglia dal cestino, veniva ugualmente avvelenata.

Sergei e Yulia Skripal

I canali media collegati alla televisione di stato russa, RT e Sputnik, cominciavano a diffondere la notizia che si trattava di un’operazione condotta dall’intelligence inglese. In seguito veniva sollevata l’ipotesi che ad avvelenare l’ex spia russa fosse stata la CIA, per tentare di coprire i retroscena degli affari russi del presidente Donald Trump.
Col passare del tempo cominciavano però ad affiorare le prove del tentato omicidio, e così il governo inglese decideva di denunciare pubblicamente il governo russo.
Le prime misure di ritorsione adottate dal premier Teresa May si concretizzavano nell’espulsione di ventitre diplomatici russi, considerati appartenere agli apparati di intelligence.
In un gesto di solidarietà con il Regno Unito altri 27 paesi dell’UE e della Nato espellevano complessivamente altri 150 diplomatici russi.
L’opposizione domandava al governo inglese di adottare misure più stringenti nei confronti del Cremlino.
In particolare veniva chiesto di individuare e sanzionare gli oligarchi strettamente collegati al
sistema di potere di Putin, responsabili di avere nascosto il frutto della corruzione del sistema cleptocratico che regge il paese, infiltratosi da tempo nell’economia inglese.
Sotto i riflettori finisce il sistema offshore britannico, in particolare le Isole della Manica e le British Vergin Island, che assieme agli altri torritori d’oltremare e alle dipendenze della corona costituiscono la porta d’accesso per quei capitali stranieri che desiderano restare schermati.
Tutto ciò avviene grazie all’opacità garantita dal segreto bancario, che consente l’accesso nel Regno Unito ai capitali di dubbia provenienza.
Al centro di questo sistema bancario il ruolo dell’Inghilterra quale centro finanziario di livello mondiale, che malgrado non faccia più parte dell’UE esso rimane ancora oggi legato al gruppo dei paesi del G7.
Nonostante una serie di misure di facciata, come la cancellazione di una visita reciproca da parte del ministro delgi esteri Sergei Lavrov e la mancata partecipazione della famiglia reale inglese alla Coppa del Mondo tenutasi nell’estate del 2018 in Russia, la presenza dei capitali russi e dei relativi oligarchi nell’economia inglese ha continuato a rimanere nell’ombra, per quanto scomoda e indefinita.
Infatti, come confermato da Tom Keatinge del Royal United Services Institute alla Commissione Esteri del parlamento inglese, nel Regno Unito vi è un aggregato molto cospicuo di denaro russo, e assieme a questo sono giunti sul suolo inglese personaggi legati ad attività non esattamente legali. Questo grazie alla pratica adottata da alcuni stati UE quali Malta e Cipro dei c.d. “passaporti d’oro“: ovvero la vendita della cittadinanza europea a prezzi accessibili solo a ricchi personaggi privi di scrupoli.
Si tratta di personalità i cui patrimoni sono difficilmente misurabili, e che hanno ottenuto tutta o parte della loro ricchezza attraverso pratiche di corruzione.
Tuto ciò viene confermato dalla National Crime Agency inglese, secondo la quale molte centinaia di miliardi di sterline di denaro proveniente da attività illegali vengono riciclate ogni anno attraverso banche del Regno Unito, incluse le loro filiali situate nei territori d’oltremate della corona.
Stando alle stime effettuate da Vladimir Ashurkov della Anti Corruption Foundation, l’ammontare del denaro russo giunto in Gran Bretagna negli ultimi venti anni sarebbe pari a 100 miliardi di sterline.
La maggior parte di questo sarebbe denaro legittimo; solo una frazione costituirebbe il ricavato della corruzione o di altre attività criminali.
Secondo Keating, che ha un passato di esperto di investment banking, negli ultimi venti anni il Regno Unito ha privilegiato gli investimenti finanziari, attravero il richiamo esercitato nei confronti dei capitali liquidi, piuttosto che delle attività produttive industriali. Ciò sarebbe stato possibile attraverso una tassazione vantaggiosa. Questo ha permesso ad alcuni capitali, frutto di attività illecite, di trovare rifugio presso alcune banche del Regno. Molti affari di dubbia regolarità sarebbero inoltre stati conclusi sul mercato azionario londinese, solamente per ragioni di competitività rispetto alla borsa di New York.
Stando a Vladimir Ashurkov, il Regno Unito rappresenterebbe una calamita naturale per i russi. Londra è una grande metropoli, molto simile a Mosca, ma soprattutto è la capitale della finanza e degli affari. La City ha molti vantaggi da offrire, sotto molti aspetti: ad esempio il sistema educativo, ma anche quello sanitario e quello giudiziario.

Le casseforti di Putin
Esiste una relazione diretta tra la ricchezza degli oligarchi russi e la capacità del presidente Putin di portare a termine la sua aggressiva politica estera, e più in generale la sua agenda. Gli oligarchi contemporanei devono il loro benessere e la loro posizione al presidente russo; in cambio questi agiscono come fonti di finanziamenti privati, indirizzati verso gli impieghi di volta in volta stabiliti dal Cremlino.
Come riferito da Oliver Bullogh alla Commissione Esteri del Parlamento britannico, gli oligarchi russi si comportano esattamente come facevano gli aristocratici nel medioevo, i quali detenevano le proprietà di cui erano in possesso secondo le direttive impartite dal loro principe.
Gli oligarchi si godono con le loro famiglie le ricchezze detenute, anche se non sono loro. In cambio sono tenuti a soddisfare in ogni momento le richieste economiche dello Zar Vladimir.
Gli oligarchi russi sono come una classe, e malgrado le differenze che ci sono tra loro, i beni di cui sono in possesso rivestono una grande importanza: si va dalle azioni della compagnia petrolifera, a quelle della compagnia del gas, passando per quelle del principale gruppo siderurgico, delle miniere di carbone, delle squadre di calcio, inclusi i giornali, le televisioni e i media moderni. Alcuni oligarchi hanno trascorso in passato lungi periodi nelle carceri russe, mentre altri sono stati funzionari pubblici. Tutti corrispondono al modello del self made man, anche se la loro fortuna è strettamente legata al rapporto che li lega a Putin. Questo li pone nella scomoda posizione di dover soddisfare ogni sua richiesta: si va dal finanziamento al partito Repubblicano degli Stati Uniti, al sostegno economico in favore di un think thank anti UE, con base in Germania, passando per la donazione all’università prestigiosa.
L’attivista e campione di scacchi russo Garry Kasparov descrive il sistema degli oligarchi di Putin come quello degli agenti segreti al servizio di un regime criminale.
Stando alla ricostruzione fatta dallo scacchista, gli oligarchi sarebbero i complici materiali degli innumerevoli crimini del presidente russo. Le loro società non sarebbero solo delle semplici corporations, ma degli strumenti per riciclare il denaro illecito sottratto dalle casse dello Stato dal sistema di potere gestito dal Cremlino. Un sistema essenziale per diffondere nel paese e nel resto del mondo la corruzione e il potere d’influenza del leader russo.
Uno studio scientifico sul ruolo degli oligarchi nella promozione degli obiettivi internazionali del Cremlino è stato realizzato da Mark Galeotti, dell’Istituto di Relazioni Internazionali di Praga.
Secondo lo studio vi sarebbe stato in un recente passato un forte interesse geopolitico da parte del governo russo verso l’area dei Balcani occidentali.
In particolare il Cremlino avrebbe esercitato una forte pressione per acquistare una serie di immobili in Serbia, oltre ad una certa quota di compartecipazioni in società farmaceutiche in Bosnia.
E’ solo un’esemplificazione dello schema di movimentazioni di capitali realizzato dagli oligarchi russi in tutt’Europa.
Tutto parte da un interesse geopolitco da parte del Cremlino, a cui fanno seguito gli spostamenti di capitali da parte degli oligarchi compiacenti.
Non sempre le richieste di Mosca si concretizzano in specifici investimenti. A volte infatti si tratta di dazioni di denaro relativamente importanti, destinate ad esempio ad una testata giornalistica piuttosto che a un’università, o a un partito piuttosto che a un singolo politico.
Dall’esterno l’iniziativa assume la forma di atto autonomo legato esclusivamente a un moto di volontà del singolo oligarca, ma in realtà non è così.
Si tratta di una precisa decisione del sistema cleptocratico attraverso cui l’elite russa saccheggia le ricchezze del proprio paese, le quali ricchezze non rimangono però in patria ma vengono dirottate all’estero, attraverso complessi sistemi di riciclaggio e reinvestimento. E tra le mete prescelte ci sarebbero come già accennato i territori offshore britannici. Come detto il denaro non rimane improduttivo in un conto schermato, ma viene rimesso in circolo reinvestito in azioni, obbligazioni, proprietà immobiliari, yacht o personal jet.
Un modo efficace per colpire la cleptocrazia russa sarebbe quello di prendere di mira il sistema di riciclaggio ora descritto. Il fatto che ciò non sia ancora avvenuto malgrado la vicenda Skripal e prima ancora quella dell’ex spia Aleksandr Litvinenko, e malgrado soprarattuto le invasioni di Georgia e Crimea, ha lasciato intendere agli oligarchi russi di potere continuare a svolgere indiscriminatamente le loro attività.
Fare finta che la massa di ricchezza illegale detenuta dagli oligarchi russi all’estero non rappresenti una minaccia non solo per la democrazia inglese ma anche per i processi democratici in corso negli Stati Uniti e in Europa, non lascia sperare in una cessazione della politica estera putiniana. Ne tanto meno per quanto riguarda il termine del conflitto in corso.

L’asta del debito russo
Un esempio delle contraddizioni insite nel sistema finanziario inglese viene offerto dalla vicenda della quotazione alla borsa di Londra dell’ En+ Group, nel novembre 2017.
La vendita sul mercato finanziario della azioni della società russa in questione ha permesso di raccogliere circa un miliardo di sterline.
La società, attiva nel campo energetico, era detenuta in quel momento dal miliardario e oligarca russo Oleg Deripaska. Lo stesso deteneva a sua volta una quota anche nel gigante russo dell’alluminio Rusal, oltre che in VTB Capital e in Gazprombank, queste ultime due tra le banche colpite nel 2014 da sanzioni economiche da parte della comunità internazionale.
Si da il caso che En+ fosse anche la holding della Rusal, e sul sito web di quest’ultima è emerso come la società abbia fornito materiale militare all’esercito russo in quel momento dispiegato in Siria.
Normalmente la comunità internazionale colpisce con sanzioni economiche le società del settore della difesa che forniscono armi a paesi in guerra. In questo caso, però, alcuna sanzione è stata elevata.
Altro elemento delicato in questa vicenda è costituito dal fatto che la VTB Bank, la banca russa sanzionata, detiene una partecipazione in En+.
Terza criticità di cui il mercato e le istituzioni internazionali avrebbero dovuto tenere conto, è
costutita dal fatto che En+ aveva ottenuto un prestito da quasi un miliardo dalla banca VTB.
La stessa En+ ha in seguito restituito il prestito in questione grazie ai soldi raccolti dalla quotazione in borsa delle sue azioni. Il tutto senza ricevere alcun tipo di sanzione.
Qualche anno dopo, nell’aprile del 2018, Oleg Deripaska è stato inserito dagli Stati Uniti nella lista degli oligarchi colpiti da sanzioni internazionali. Ma stranamente l’operazione di quotazione in borsa della En+ ha continuato a rimanere fuori dai radar del regolatore.
E questo nonostante fosse nota la vicinanza dell’oligarca russo in questione al Cremlino. L’episodio denota come il sistema di riciclaggio impiegato dalla cleptocrazia russa sia riuscito ad uscire indenne ai controlli del regolatore internazionale. Passa ancora qualche tempo e alcuni media inglesi
riportano la notizia dell’interessamento sia da parte dell’MI6 che dei servizi di sicurezza statunitensi,
nei confronti della quotazione in borsa della En+.
Nel febbraio 2018 Deripaska si dimette dalla carica di presidente sia della En+ che di Rusal.
Questi nuovi avvenimenti riaccendono l’interesse delle autorità regolatrici verso l’ingresso nella borsa di Londra di En+, oltre che sulla mancata adozione delle sanzioni. Tuttavia l’esito è ancora una volta un nulla di fatto: l’operazione finanziaria è rimasta nuovamente fuori dai radar dell’autorità di controllo.
Altro esempio di vicenda finanziaria uscita indenne dal sistema di controllo delle autorità competenti è quella del debito sovrano russo. Il 16 marzo 2018, due giorni prima dell’annuncio dell’espulsione di 23 diplomatici russi da parte del governo inglese per via della nota vicenda Skripal, il debito sovrano russo ha raccolto sul mercato di Londra 4 miliardi di euro grazie all’emissione di eurobond, la metà dei quali acquistati da investitori britannici. Nella vicenda in questione la banca russa VTB Bank ha svolto il ruolo di book runner nella vendita dei titoli, approfittando di una scappatoia offerta dal sistema finanziario britannico che consente di realizzare questo genere di operazioni anche a soggetti colpiti da sanzioni internazionali, ai quali non sarebbe normalmente permesso di accedere a pieno titolo ai mercati dei capitali dell’UE. Il tutto sarebbe avvenuto solamente il giorno successivo alla vendita di obbligazioni da parte di Gazprom PJSC, per 750 milioni di euro. Anche in questo caso una parte delle obbligazioni sarebbero state acquistate da investitori britannici.
Da quest’ultima vicenda emerge chiaramente come il Regno Unito abbia continuato ad assumere un atteggiamento quanto meno incoerente nei confronti del regime russo.
La facilità con cui quest’ultimo sia riuscito a portare a termine operazioni finanziarie complesse sul mercato finanziario di Londra, e cioè in sostanza a finanziarsi nonostante la vicenda Skripal,
lascia seri dubbi sull’incisività con cui il governo inglese abbia sanzionato l’aggressione russa.
Sia la quotazione in borsa delle azioni di En+ che la vendita del debito pubblico russo sono avvenute nel pieno rispetto della normativa vigente, tuttavia il fatto che siano state portate a termine
durante l’adozione delle sanzioni economiche nei confronti della Russia ha trasmesso in quel paese
il messaggio che le misure in questione fossero solo di pura facciata.
La condanna nei confronti dell’aggressiva politica estera di Putin ha assunto dunque una valenza temperata, lasciando intendere come il denaro che finanzia il sistema cleptocratico al potere in Russia
fosse in qualche modo al sicuro nei mercati finanziari occidentali. (cm)

New York: la vittoria dei lavoratori Amazon

Nel magazzino Amazon di Staten island, a New York, saranno eletti per la prima volta negli Stati Uniti dei rappresentanti sindacali. Una novità assoluta e non solo per il gigante del commercio on line, notoriamente avverso alle organizzazioni dei lavoratori.

Un aiuto insperato è arrivato dalla pandemia ancora in corso, che ha permesso di svelare le condizioni di lavoro alle quali i lavoratori, non solo di Amazon, erano costretti.

Chris Small

Era il 30 marzo 2020 quando la dirigenza dello stabilimento decideva di licenziare il dipendente Chris Small, dopo le sue denunce sui lavoratori costretti a lavorare senza mascherine e in totale violazione alle regole sul distanziamento.

Le motivazioni sembravano pretestuose: mancato rispetto delle normative previste per il Covid19. Ma Small non si da per vinto, e grazie ad un crowdfunding online sulla piattaforma FundMe costituisce il sindacato Amazon Labor Union (ALU). Comincia ad organizzare proteste e azioni per richiamare i suoi ex colleghi alla necessità di eleggere un rappresentante dei lavoratori.

Da sempre i ritmi imposti all’interno dei magazzini del gigante del commercio on line sono talmente frenetici che gli infortuni sul lavoro sono all’ordine del giorno. Ed è per questo infatti che la durata media di un lavoratore non supera in genere i due anni.

Le mobilitazioni nell’area newyorkese coinvolgono anche il gigante del caffè Starbucks, che con una rete di 9000 bar ha una diffusione capillare di punti vendita sul territorio, oltre a numerosi dipendenti. E sono circa un centinaio ad oggi i bar che hanno indetto votazioni tra i lavoratori, per decidere se avere o meno una rappresentanza sindacale.

E il successo della votazione di sabato a Staten Island, dove 8.325 lavoratori su 3.654 hanno votato si, potrebbe essere la prima tessera del domino a cadere.

Tutto è cominciato nell’estate del 2020. Siamo nella zona industriale di Bessemer, in Alabama. Stanchi del costante tracciamento al quale sono costretti negli orari di lavoro, i dipendenti del magazzino Amazon decidono di contattare il sindacato di categoria, il Wholesale and Department Store (RWDSU).

Le condizioni e i ritmi di lavoro sono diventati insostenibili, e si decide di costituire una rappresentanza sindacale. I primi incontri avvengono in gran segreto in un hotel. Segue una capillare quanto clandestina attività di informazione, e già a dicembre sono circa 2.000 su 5.800 i dipendenti che hanno firmato per ottenere le elezioni sindacali.

E così il National Labour Relations Board (NLRB), l’agenzia che cura per il ministero del lavoro i rapporti con i sindacati, valutate le firme raccolte da l’ok alla consultazione a Bessemer. Il 20 gennaio 2021 l’NLRB fa sapere che le votazioni cominceranno il mese successivo, e che si svolgeranno via mail fino alla fine di marzo. Amazon non ci sta, e comincia da subito le attività di boicottaggio.

Solo un’altra volta in uno stabilimento Amazon nel Delawere, era il 2014, i lavoratori erano riusciti a raggiungere lo stesso obiettivo. Quella volta però i votanti si erano espressi in maggioranza contro.

Per i manager del gigante del commercio in rete un sindacato graverebbe solo di ulteriori impegni i lavoratori, che devono invece dedicare tutto il loro tempo esclusivamente al lavoro. Senza contare che la certezza di ottenere aumenti salariali o miglioramenti delle condizioni di lavoro non c’è.

Le elezioni del marzo 2021 a Bessemer hanno visto la sconfitta dei lavoratori favorevoli al sindacato, che però hanno presentato ricorso al NLRB.
Il garante ha infatti riconosciuto l’attività di disturbo di Amazon tesa ad influenzare l’esito della consultazione.

Il leader dell’ecommerce avrebbe incoraggiato i suoi dipendenti ad inviare le loro email di voto ad un indirizzo mail di sua proprietà, per poterne manipolare l’esito.

Inoltre negli Stati Uniti le riunioni contro la costituzione di un sindacato, organizzate dal datore di lavoro, sono legali e il datore ha il potere di obbligare tutti i suoi dipendenti a parteciparvi. Tuttavia il consigliere generale del NLRB, su impulso del Presidente Joe Biden, ha deciso recentemente di rivedere questa pratica.

Gli Stati Uniti sono uno dei paesi occidentali con il più basso tasso di sindacalizzazione delle sue imprese, siamo al 10,8%.

In Europa la presenza dei sindacati nelle fabbriche, così come l’iscrizione ai sindacati da parte dei lavoratori, raggiunge livelli molto elavati, in media intorno al 60%.

La denuncia presentata dal sindacato ha inficiato il risultato delle elezioni, che si sono tenute di nuovo a fine marzo 2022. L’esito è stato ancora una volta a favore del no, anche se la differenza è stata meno evidente: 993 contro 875.

In Europa Amazon ha dovuto accettare la presenza dei sindacati nei suoi stabilimenti. Così come l’ipotesi di vedersi sconfiggere da un sindacato di fronte alla giustizia ordinaria.

E’ accaduto nell’aprile 2020, presso il tribunale di Nanterre, in Francia. E’ qui che la multinazionale statunitense è stata obbligata da un tribunale a consegnare ai suoi clienti, durante la pandemia, solo beni essenziali. Pena il pagamento di una multa da un milione di euro al giorno.

Dopo il caso del lavoratore di uno stabilimento ricoverato in rianimazione per avere contratto il Covid19, il sindacato SUD Solidaires è riuscito ad ottenere la cessazione di qualsiasi altra consegna inserita per la prima volta durante la fase di lock down.

Il tribunale ha dunque riconosciuto la condotta illecita di Amazon nella mancata applicazione degli obblighi di sicurezza e di protezione dei lavoratori.

Ma la Francia non è l’unico paese europeo ad assistere ad un crescendo di vertenze sindacali contro il precursore dell’e-commerce. In Germania è in corso infatti una vertenza diffusa che coinvolge diversi stabilimenti in diverse città, al fine di ottenere un miglioramento delle condizioni generali per i lavoratori. (cm)

Campione di rugby argentino ucciso a Parigi

Cercava di arruolarsi nelle truppe internazionali che combattono l’esercito russo in Ucraina. Dopo quattro giorni di fuga, Loik Le Priol imprenditore 27enne ex GUD (Groupe Unione Defense) ed ex appartenente ai commando della Marina Francese, è stato arrestato presso la cittadina ungherese di Zahong, l’ultimo centro urbano prima del confine ucraino.

Loik Le Priol

Sospettato dell’omicidio dell’ex nazionale argentino di rugby Federico Martin Aramburu, ucciso sabato 19 all’uscita da un bar a Saint Germain des Pres, a Parigi, Le Priol è stato fermato dalla polizia di confine ungherese martedì 22.

Federico Martin Aramburu

Il suo presunto complice, l’ex “gudard” trentunenne Roman Bouvier, è stato arrestato lo stesso giorno a Sable-sur-Sarthe.

Prima di loro era stata fermata e poi arrestata la presuna fidanzata di Le Priol, la ventiquattrenne studentessa universitaria Lyson R. Stando a quanto riportato da Le Parisien la ragazza sarebbe stata alla guida del veicolo sul quale viaggiavano i due estremisti di destra sospettati della morte del campione di rugby.

Secondo quanto scrivono i quotidiani francesi, Aramburu si trovava la sera del 19 assieme all’amico rugbista Shaun Hegarty presso il bar La Mabillon, nel sesto arrondissement. Ad un tavolo vicino erano seduti Le Priol, Bouvier e la giovane universitaria, quando sarebbe scoppiata una rissa tra gli occupanti dei due tavoli.

I due rugbisti avrebbero raggiunto l’uscita del locale, e all’altezza del civico 146 del boulevard Saint-Germain sarebbero stati raggiunti da una jeep verde militare. A bordo le stesse persone che avevano preso parte alla rissa del Mabillon; una di queste avrebbe estratto un arma e avrebbe fatto fuoco sui due rugbisti, senza riuscire a colpirli.

A quel punto, secondo quanto riferisce L’Equipe, il secondo passeggero sarebbe sceso dalla jeep ed avrebbe fatto fuoco sui due rugbisti prendendoli alle spalle, e colpendo Aramburu alle gambe e al basso ventre. Il campione argentino sarebbe spirato prima dell’arrivo dei soccorsi.

Hegarty avrebbe denunciato alla procura di Parigi i due ex GUD per omicidio volontario.
Secondo il giornale online StreetPress, la giovane Lyson R sarebbe stata fermata il sabato stesso. Per Liberation il secondo passeggero della jeep ricercato dalla polizia francese sarebbe Bouvier. Stando alla ricostruzione, Le Priol sarebbe colui che avrebbe colpito mortalmente l’argentino.

Ai magistrati che ne hanno convalidato l’arresto, la ragazza avrebbe dichiarato di avere agito di impulso e per amore, e di avere cercato di dissuadere il suo compagno dal vendicarsi. La giovane donna si è detta comunque rattristata per la scomparsa del rugbista.

Le indagini, avviate martedì, avrebbero fin da subito tentato di indivduare le eventuali complicità e coperture di cui il giovane estremistra di destra si sarebbe potuto avvalere.

Iscritto fuoricorso alla prestigiosa università di giurisprudenza di Paris II Assas, la stessa in cui si è laureata Marine Le Pen, Bouvier avrebbe fatto parte assieme a Le Priol del gruppo di cinque militanti del GUD posti in detenzione provvisoria e in seguito rinviati a giudizio, con l’accusa di avere aggredito l’ex capo del GUD di Parigi Edouard Klein, nell’ottobre 2015.

I cinque avrebbero fatto irruzione nell’appartamento della vittima, per poi pestarla e costringerla a denudarsi, minacciandola con un coltello e riprendendo la scena con un cellulare. Il video è visibile sul sito youtube di Mediapart.

Come rivelato sempre da Mediapart, dopo solo dieci giorni di detenzione, i cinque sarebbero stati liberati a seguito del pagamento di una cauzione. A pagare 25.000 per Logan Djian, colui che avrebbe preso il posto di Edouard Klein al vertice del GUD parigino, sarebbe stato Axel Loustau personaggio dell’estrema destra considerato vicino all’entourage di Marine Le Pen.

La carriera militare
Ammesso all’età di sedici anni nella Marina Militare, a seguito del suo ingresso nel collegio militare di Brest, il primo febbraio 2014 Le Priol è stato promosso col grado di quartiermastro di seconda classe “marinaio fuciliere”.

In seguito, dopo una dura selezione, sarebbe entrato a far parte di uno dei sette commando della Marina, con base presso il Comando di Monfort. Si tratta di un corpo di incursori specializzato nelle operazioni ad alto rischio, e impiegato attualmente in diversi fronti, tra cui il contrasto al narcotraffico presso le isole Antille e nel Mediterraneo.

Complessivamente Le Priol ha trascorso in Marina ben cinque anni, partecipando tra il 2013 e il 2015 a due missioni, a Djibouti e in Mali.

Il 7 luglio 2015 Le Priol viene rimpatriato dopo che i medici militari gli diagnosticano uno stato grave di stress post traumatico. Il comando decide di metterlo in stato di congedo ordinario per malattia, a partire dal 9 luglio 2015, congedo rinnovato fino al dicembre 2017.

Come già visto, nel novembre 2015 a seguito del suo arresto per un’inchiesta aperta dalla procura di Parigi (il pestaggio dell’ex capo del GUD parigino), Le Priol viene posto in stato di detenzione provvisoria.

Il 7 aprile 2016, a seguito del pagamento di una cauzione, viene posto in stato di libertà in attesa del processo. Per le accuse mossegli, la Marina Militare decide di applicargli come sanzione disciplinare la rottura del contratto, allontanandolo da tutte le funzioni.

Nell’ottobre del 2017 viene dichiarata ufficialmente la cessazione del suo status di militare. Come riportato da Marianne, durante la missione a Djibouti nel 2015 Le Priol viene accusato di aver picchiato e strangolato una prostituta. La denuncia viene ritirata a seguito del pagamento da parte della Marina Francese di 350.000 franchi di djibouti, che corrispondono a circa 1.700 euro.

Foto di famiglia
Ma i legami di Le Priol con esponenti di primo piano dell’estrema destra francese non si limitano alla sola militanza nel GUD.

Accantonata la vita militare, il giovane estremista di destra si dedica a diverse attività imprenditoriali, la prima delle quali è la creazione assieme alla sua ex fidanzata del marchio d’abbigliamento sportivo Babtou Solide.

Il marchio non è solo un esercizio di marketing, ma una vera operazione politica, che pubblicizza i valori della virilità assieme a quelli della destra identitaria. Non a caso viene ripreso il simbolo del movimento statunitense Black Lives Matters, dove Black Lives viene ripreso con il marchio creato da Le Priol, che in maliano significa uomo bianco.

Dopo la rottura con la sua ex, Le Priol crea assieme alla sua attuale fiamma Lyson R. il marchio FSMSK Face Mask, che produce maschere da viso d’ispirazione militare, distribuite attraverso un sito internet.
Ma è proprio attraverso la campagna di comunicazione del marchio Babtou Solide che emergono i legami di alto livello intrattenuti da Le Priol.

Come ad esempio quelli con con l’ex moglie di Fredrick Chatillon, che si lascia riprendere con una maglia dal marchio più noto tra l’estrema destra francese. Ex capo del GUD e amico intimo di Marine Le Pen, Chatillon è rimasto coinvolto nella vicenda dei finanziamenti illeciti al Front National in occasione della campagna elettorale per le elezioni legislative del 2012.

A riprova del legame tra gli Chatillon e il RN, in una foto sul profilo facebook dedicato marchio Bambtou Solide l’ex signora Chatillon, Marie d’Herbais, posa accanto al fondatore del Front National Jean-Marie Le Pen.

Come scrive Mediapart, Marie d’Herbis è amica d’infanzia di Marine Le Pen, oltre ad essere una militante storica del FN impiegata per lungo tempo nell’ufficio comunicazione del partito. La donna è stata inoltre candidata sempre per il FN nel Sarthe, alle legislative del 2012.

Tra le nuove leve dell’estrema destra francese sempre legate a Le Priol, segnaliamo Julien Rochedy ex portavoce del Front National Jeunesse (FNJ) e il suo vice Paul Alexandre Martin, candidato anche lui con il FN alle legislative del 2012. Le sue foto compaiono sul profilo social dell’ex commando.

Martin dirige attualmente la società di comunicazione politica E-Politic, della quale ha ceduto il 45% delle azioni ai due ex “gudard” Fredrick Chatillon e Axel Lousteau, con quest’ultimo che ha ricoperto in passato l’incarico di ex tesoriere del micro partito legato a Marine Le Pen “Jeanne”.

Come riporta Le Monde, sempre Paul Alexandre Martin avrebbe ceduto il 22% della società immobiliare ungherese Sowilhome a Axel Loustau, ex consigliere regionale del FN.

a dx Jean-Romee Charbonneau

Un altro politico che ben conosce Le Priol è Jean-Romee Charbonneau, eletto col RN al consiglio regionale della Nuova Aquitania. Quest’ultimo, intervistato da France3, racconta del buon rapporto di amicizia che lo lega all’ex giovane militare.

Il padre del giovane è concessionario del marchio Jeep per la Francia, mentre il giovane è stato insignito della croce al valore militare per i servizi resi quando era in missione in Mali.

Charbonneau dice di conoscere le motivazioni della sua radiazione dalla Marina, ma di non sapere delle due precedenti denunce pendenti sul capo dell’ex commando della Marina (il pestaggio all’ex capo del GUD e un’altra denuncia rimediata ad appena 19 anni).

“E’ una dramma terribile” spiega il politico, aggiungendo: “Qualunque cosa faccia, questo giovane, la sua vita è rovinata, moralmente, militarmente, politicamente”.

Infine, sempre sul sito facebook di Babtou Solide, Le Priol viene fotografato assieme al generale in pensione ex comandante in capo della Legione Straniera, Christian Jean Piquemal.

Oltre ad avere aderito all’appello dei generali in pansione promosso dal settimanale di estrema destra Valeurs Actuelles, Piquemal è stato messo in pensione dal ministro della Difesa Jean-Yves Le Drian nel 2016, come misura punitiva a seguito della sua partecipazione ad una protesta promossa dall’estrema destra francese presso la tendopoli degli immigrati di Calais.

Le Priol ha partecipato nel 2016 al video clip di un pezzo del rapper di estrema destra francese Goldofaf. A suo fianco partecipavano anche il naziskin Esteban Morillo e Serge Ayoub, entrambe accusati della morte del giovane militante antifascista Clement Meric, ucciso nel giugno 2013.

Nonostante le premesse, il marchio Babtou Solide non ha riscosso il successo sperato, tanto che nel giugno 2017 dopo una procedura fallimentare viene cancellato dal registro delle imprese.

E’ per tale ragione che Le Priol si lancia in una nuova impresa commerciale. Si tratta del marchio Kyani, società di vendite multilivello specializzata in prodotti per la salute e il benessere.
A fargli da spalla un ex commilitone anche lui arruolato in Marina.

Un’operazione dall’esito negativo quanto scontato, tanto che a dicembre 2021 Le Priol si lascia fotografare nella foto di buon anno scattata dal personale dell’azienda del padre, e inviata a tutti i clienti. (cm)

La Cosa Nuova

Il 31 maggio 2021, in piena crisi di governo, l’ex premier Matteo Renzi incontrava il dirigente dei servizi segreti (AISE ex SISMI) Marco Mancini in un luogo pubblico, la piazzola dell’autogrill di Fiano Romano, sperando di non essere disturbato.

Un’insegnante in sosta nell’autgrill assieme alla madre riprende la scena, e la gira al programma giornalistico Report. Che la mette in onda, dopo evere fatto le dovute verifiche.

Il dibattito politico che ne segue si divide tra chi si chiede se un senatore della Repubblica possa incontrare un dirigente dei servizi segreti, senza una comunicazione ufficiale, e chi come Matteo Salvini tende a minimizzare il tutto. A sentire ques’ultimo pare sia una pratica diffusa tra i politici quella di incontrare rappresentatnti dei servizi, al difuori dei protocolli ufficiali.

La polemica prosegue fino ad assopirsi, apparentemente, nei giorni e mesi a seguire.
Fino all’uscita del nuovo libro del giornalista RAI Bruno Vespa, in cui il professionista racconta come, sempre durante la nascita del governo Conte ter, un altro politico italiano in procinto di sostenere Conte attraverso l’offerta di un certo numero di voti in Parlamento, sarebbe stato avvicinato da un rappresentante dei servizi. Quel politico era il segretario dell’UDC Lorenzo Cesa.

Nel 2006 sempre Cesa sarebbe stato fatto oggetto di un’attività di dossieraggio a fini ricattatori, attività di cui sarebbe venuto a conoscenza proprio grazie alle rivelazioni fattegli da Mancini, allora agente del SISMI.

Il dubbio legittimo è se i due incontri, quello di Renzi all’autogrill e quello di Cesa, siano in qualche modo legati tra loro, posto che avvengono ad un intervallo di tempo non molto distante, e dunque in un contesto politico analogo.

A margine di questo episodio, la puntata di Report dedicata alla vicenda narra la nascita di una nuova organizzazione criminale denominata Cosa Nuova, molto più ricca e potente sia di Cosa nostra che della’ndrangheta, anche se è a queste due che si sarebbe ispirata.

La sua peculiarità sarebbe rappresentata dalla componente riservata composta dai cd “invisibili”, ovvero da quei professionisti, uomini politici ed esponenti dei servizi, o da personaggi in contatto con i servizi, che anche se non risultano ufficialmente affiliati all’organizzazione mafiosa ne fanno parte in maniera effettiva.

Questa vicenda mostra come sfondo alcune presenze, personaggi che nella fase politica attuale ricoprirebbero un ruolo di primo piano, che avrebbero offerto il loro sostegno ad alcuni dei candidati alla Presidenza della Repubblica.

Dalla vicenda emerge anche un ruolo determinante svolto dal SISMI, che dal 2001 al 2006 sotto il governo guidato da Silvio Berlusconi sarebbe stato diretto da Nicolò Pollari, mentre la delega governativa era in mano all’allora sottosegretario alla Presidenza del Consiglio Gianni Letta (zio dell’attuale segretario del PD).

Sempre dalla direzione Pollari dipendeva l’ufficio in via Nazionale gestito da tale Pio Pompa, che si occupava di redigere dossier ricattatori su uomini politici, giornalisti e sindacalisti, che avevano o avrebbero potuto attaccare politicamente l’allora premier Berlusconi. Una sorta di ufficio politico di una polizia segreta, completamente illegale, destinata ad entrare in azione nei confronti degli oppositori politici..

Il 6 ottobre 2004, in una stanza dell’edificio del comune di Reggio Calabria viene trovato un ordigno esplosivo. L’ordigno, anche se privo di innesco, è costituito da una grossa quantità di tritolo destinato all’allora sindaco della giunta di centro destra Giuseppe Scopelliti.

A scriverlo in un’informativa del SISMI è l’agente Marco Mancini. Oggi, a vent’anni da quell’evento, possiamo dire che quell’ordigno fece decollare la carriera politica di Scopelliti, che a metà mandato si dimise da sindaco per correre alle elezioni di presidente della Regione Calabria, elezioni che avrebbe vinto con un discreto numero di preferenze.

Eppure in un processo contro la ‘drangheta in corso sempre a Reggio, un ex assessore comunale della giunta Scopelliti accusato di appartenere alla ‘ndragheta, tale Seby Vecchio, riferisce ai magistrati che quell’attentato era tutta una montatura. Ad eseguirlo sarebbe stata la ‘ndrangheta assieme al SISMI di Marco Mancini, allo scopo di fare accrescere il consenso attorno al politico Scopelliti, politico appoggiato dal potente clan di ‘ndrangheta reggino dei De Stefano.

A fornire il tritolo per quella bomba sarebbe stato il SISMI, che in un’informativa a firma sempre di Marco Mancini scrive come la sua provenienza era da ascriversi certamente al carico di esplosivo affondato con la motonave militare Laura C di fronte alla costa ionica.

A rivelare l’esistenza di quella nave affondata sarebbe stato un’ex boss della cosca Iamonta, ex collaboratore dei servizi, ex mercenario, Pasquale Nucera. Quest’ultimo viene a conoscenza del relitto e del suo carico per la prima volta nel 1986, quando dirigeva la cosca ndranghetista, e subito ne da notizia ai servizi segreti.

Secondo Nucera, 3/4 dell’esplosivo contenuto nella motonave sarebbe stato recuperato da Cosa nostra, che lo avrebbe utilizzato per l’attentato di Capaci al giudice Giovanni Falcone, nel giugno del 1992.
Questa versione di Nucera sarebbe stata confermata da alcuni ‘ndranghetisti, anche se le verifiche ufficiali ancora non sono ancora state eseguite.

Sarebbero stati inoltre i servizi segreti nel 2000 a ritirare fuori la storia della motonave Laura C, appena qualche anno prima del presunto attentato al sindaco di Reggio Calabria, Giuseppe Scopelliti.

Scopelliti ha sempre negato di avere avuto rapporti con la cosca De Stefano, o con altre famiglie di ‘ndrangheta. Anche Pollari, che nel 2004 guidava il SISMI, ha negato la versione fornita dall’ex assessore comunale Vecchio.

Resta il fatto che la vicenda documenta ripetuti contatti tra esponenti di vertice della ‘ndrangheta e dei servizi segreti italiani, assieme a politici di vertice del sud d’Italia. Il tutto a delineare i contorni di questa fantomatica organizzazione criminale, della quale sfortunatamente si conosce ancora troppo poco. (cm)

Le porte aperte dell’oligarca

In questi giorni di guerra e di sanzioni economiche contro la Russia, si susseguono i nomi di ricchi oligarchi russi che avrebbero trovato una seconda patria in una paese europeo. Non si tratta di perseguitati politici in cerca di accoglienza da una fuga forzata, quanto pittosto di ricchi imprenditori, manager di aziende di stato, con ingenti patrimoni e capitali di dubbia provenienza.

Nella migliore delle ipotesi la provenienza delle loro ingenti ricchezze sarebbe costituita dalla vendita di quote azionarie delle ex aziende di stato, come l’azienda del petrolio o quella del gas, o come l’accaieria principale russa.

Come si può immaginare si tratta di personaggi piuttosto ingombranti con il loro portato di legami con politici russi più o meno vicini a vertici del potere, che però non hanno mai cessato di svolgere attività politica malgrado si trovino in terra straniera. E’ quello che in gergo diplomatico viene definito il soft power del Cremlino, ovvero il canale più o meno visibile su cui viagga l’ìnfluenza del potere russo.

Open Democracy cita, tra i più importanti, il lobbista russo Sergey Pechinin. Si tratta di un ex politico, che dopo essersi trasferito in Inghilterra ha cominciato a svolgere un’attività a metà strada tra il lobbismo e l’agenzia di servizi per i ricchi milionari russi, desiderosi di trasferirsi anche loro in terra di Albione.

E i contatti che Pechinin sarebbe in grado di offrire au suoi compatrioti sono ai massimi livelli. Di fronte ai suoi clienti, attuali o potenziali Pechinin dichiara di essere in grado di poter “aprire tutte le porte” che contano a Londra. Mentre sui social l’ex politico si lascia fotografare con il premier inglese Boris Johnson, su LinkedIn dichiara di essere in grado di offire con la sua azienda Realia Capital, l’accesso a dirigenti di primo piano del governo britannico.

Come lobbista Pechinin si è dimostrato molto attivo con il partito conservatore britannico, al quale ha donato 2.400 sterline nel 2018, anche se in quell’occasione il suo denaro sarebbe stato rifiutato perchè il suo nome non era stato ancora inserito nel registro elettorale britannico.

Nel 2021 Pechini ha provato a donare una seconda volta ai Tories una somma di denaro. Questa volta, forse istruito correttamemte dai beneficiari, il lobbista avrebbe trasferito tramite la società a lui riconducibile Realia EM Ltd, la somma 4000 sterline.

Il beneficiario questa volta non è stato però il partito conservatore ma il Carlton Club, un circolo elitario privato con sede a Mayfar, che nel 2020 ha versato nelle casse dei Tories la fantasmagorica somma di un milione di sterline.

L’attività lobbistica e di relazioni pubbliche di Pechinin nel corso degli anni lo ha portato a frequentare in occasioni pubbliche personaggi del livello di David Cameron, Theresa May, Liz Truss, Sajid Javid, Zac Goldsmith, Jeremy Hunt, Oliver Dowden, Conor Burns e Liam Fox.

Le foto da lui pubblicate sui social dimostrerebbero che Pichinin avrebbe incontrato Johnson in almeno sei occasioni pubbliche, di cui almeno due dopo la nomina a primo ministro. Nel 2016 Pechinin avrebbe anche partecipato ad una conferenza con il padre del primo ministro, Stanley, presso il lussuoso albergo moscovita Radisson Hotel.

Due anni fa Pechinin ha preso parte al ballo esclusivo organizzato dai Tories per la raccolta fondi, il Winter Parties. In quell’occasione il partito di Johnson ha raccolto circa 500.000 sterline solo dai tavoli dei partecipanti. Le singole donazioni degli invitati hanno raggiunto anche le 15 mila sterline a tavolo. In due occasioni due donatori rimasti anonimi avrebbero versato 100.000 sterline ciascuno, per due partite di tennis con il Premier.

Dal canto suo Johnson ha preso parte ad almeno un evento organizzato a Londra da una delle società di Pichinin, la Realia Capital Management.

L’evento in questione si sarebbe svolto nel marzo del 2015, e vi avrebbero preso parte funzionari di stato e uomini d’affari russi. Agli invitati è stato ribadito in quell’occasione che Londra è una meta aperta agli investimenti stranieri. Alcune settimane prima di quell’iniziativa la Crimea era stata formalmente assorbita dalla Russia, grazie a un referendum la cui validità non è stata riconosciuta a livello internazionale.

Prima di fare il lobbista Pichinin aveva svolto l’attività di consigliere per conto di un certo numerodi deputati e senatori russi. In particolare è stato in passato associato al partito russo Yabloko, individuato nell’area del centro sinistra.

Sul sito di una delle sue società, Pichinin indica tra i suoi partner aziendali la principale banca russa Sberbank, una di quelle colpite dalle sanzioni economiche da parte della comunità internazionale.
Realia Family Office si offre anche di far ottenere ai suoi clienti milionari i famosi “visti d’oro” per poter vivere nel Regno Unito, secondo uno schema che è stato sanzionato dalla comunutà internazionale per via delle sue implicazioni con la sicurezza interna.

Il sito web di Realia sostiene di garantire “una durata minima per l’iter burocratico” e “risultati ottimali” per quanto riguarda i visti.

OpenDemocracy ha rivelato che più di 200 milionari russi hanno comprato la loro nazionalità nel Regno Unito durante i sette anni in cui il governo inglese si è formalmente impegnato a fermare i plutocrati corrotti che sfruttano il sistema. (cm)

Dalla Russia col contante

Dopo essere già finito sulla graticola lo scorso agosto per alcuni finanziamenti opachi che avrebbe raccolto per conto del partito conservatore, del quale è co-presidente a partire dall’arrivo di Boris Johnson al n.10 di Dawning street, il 45enne Ben Elliot nipote dell’attuale compagna del principe Carlo d’Inghilterra Camilla Shand è tornato al centro delle cronache per aver favorito attraverso la società da lui posseduta diversi oligarchi russi.

Con un portafoglio clienti che annovera alcuni tra gli uomini più ricchi d’Inghilterra, Elliot è il cofondatore della società Quintessentially, attiva già da venti anni, e presente con filiali in tutto il mondo. La compagnia offre, come è scritto sul suo sito, “un accesso ineguagliabile al settore del lusso, con tutti i suoi benefici e vantaggi”. Quintessentially si propone di offrire un servizio di consierge, ideato allo scopo di “restituire” ai suoi soci “il bene più prezioso: il tempo”.

Specializzata nel fornire consulenze su viaggi presso località amene, o nella ricerca di un hotel di lusso o di esperienze culinarie speciali presso ristoranti esclusivi, o ancora itinerari turistici personalizzati, la società vanta un portafoglio di 1.600 residenze private in tutto il mondo.


Essa è inoltre in grado di offrire un’ assistenza aeroportuale per VIP, oltre a un servizio di personal shopper, uno di noleggio top car, e ancora autisti privati, tour esclusivi, ed anche selezione di personale iperqualificato.

Con oltre 60 uffici in tutto il mondo, 1.500 lifestyle manager e specialisti nel lusso disponibili 24 ore su 24, tutti i giorni dell’anno, capaci di parlare 35 lingue, la società offre ai suoi clienti uno stile di vita più che un servizio, ovunque il cliente desideri.

Stando al Times, tra i facoltosi clienti russi corteggiati dai manager della società vi sarebbe anche Mikhail Lesin, ex consigliere di Vladimir Putin soprannominato il “bulldozer”, per via della sua reputazione nel riuscire a costringere le società di media ad adeguarsi alla volontà del Cremlino. Lesin è morto improvvisamente in circostanze misteriose a Washington, nel 2015.

Altro illustre cliente di Quintessentially è stato Roman Abramovich, ex proprietario del Chelsea Football Club.
Quello che politicamente fa discutere è il fatto che nel periodo in cui Elliot è stato presidente del partito dei Tories abbia ricevuto donazioni da Lubov Chernukhin, la moglie dell’ex ministro delle finanze di Vladimir Putin, oltre che da Aquind, una società di proprietà del miliardario Viktor Fedotov.

Nessuno dei due illustri personaggi è soggetto a sanzioni, e i conservatori hanno dichiarato che tutte le donazioni ricevute hanno seguito una procedura portata a termine “correttamente e in modo trasparente”, in linea con la legge elettorale. Chernukhin, che ha la cittadinanza britannica, ha inoltre condannato l’invasione dell’Ucraina e ha definito il regime di Putin “dispotico”.

Questa doppia veste di co-presidente dei Tories e di cofondatatore di una società di servizi di lusso che vanta tra i suoi clienti anche alcuni ricchi oligarchi russi che già hanno, o che desiderano, trasferire una parte dei loro assets in Inghilterra, pone il nipote di Camilla nella scomoda posizione di un evidente conflitto di interessi.

Come già detto, Elliot avrebbe anche raccolto fondi per i Tories, e proprio in quest’attività sarebbe riuscito a rastrellare due milioni di sterline da donatori russi.

Secondo il Guardian, Elliot avrebbe anche istituito un cosiddetto “gruppo consultivo” di donatori del partito, alcuni dei quali hanno legami con il regime di Putin.

Per questa ragione il partito Laburusta ha scritto una lettera al premier inglese Boris Johnson, chiedendogli di rimuovere Elliot dalla posizione di dirigente di vertice del suo partito.

La presidente del partito laburista, Anneliese Dodds, ha postato invece su Twitter: “I conservatori hanno rastrellato 1,96 milioni di sterline da donatori legati a Putin da quando Boris Johnson ha nominato Ben Elliot co-presidente del partito”.

E ancora: “Il primo ministro non può affermare di essere serio nell’affrontare il tema del riciclaggio del denaro russo e allo stesso tempo mantenere in carica il signor Elliot”, concludendo: “(Elliot) Deve essere rimosso immediatamente”.

Un rappresentante dei Tory ha accusato i laburisti di cercare di “ottenere del consenso a buon mercato diffamando individui sulla base dei loro legami di parentela”.

Nel corso di una visita a Birmingham Erdington, il segretario laburista Sir Keir Starmer ha dichiarato: ‘Penso che ci sia una crescente preoccupazione sui legami tra il partito conservatore e il denaro russo.
Ben Elliot è al centro di tutto questo. Dobbiamo eliminare il denaro russo dalla nostra politica, non permettergli di influenzare la nostra politica.

Se il governo conservatore non prenderà seri provvedimenti, ci sarà sempre il pericolo che la gente dirà che è perché si fa affidamento sul denaro russo che le misure necessarie stentano ad essere adottate.
Quindi, è nell’interesse di tutti che Ben Elliot faccia un passo indietro dal suo ruolo”, concludendo con “penso che dovrebbe essere licenziato”.

La questione sta montando nel partito del premier inglese, e se da una parte le richieste di rimozione dalla poltrona di co-presidente nei confronti di Elliot si farebbero sempre più pressanti, quest’ultimo avrebbe cercato di alleggerire la sua posizione togliendo dal sito della sua società una sezione in cui verrebbero pubblicizzate diverse sedi in Russia che impiegherebbero complessivamente 50 dipendenti.

Nella sezione cancellata si diceva: “Quintessentially Russia ha quasi 15 anni di esperienza nella fornitura di uno stile di vita di lusso all’élite russa e ai dirigenti delle aziende russe. Il nostro ufficio impiega oltre 50 lifestyle manager, ognuno dei quali ha completato un programma di formazione specializzato. Tutti i dipendenti lavorano 24 ore su 24, 365 giorni all’anno, per fornire servizi di concierge personalizzati ad ogni socio. Dalle prenotazioni dei ristoranti all’accesso al backstage dei concerti, uno stile di vita di lusso e su misura è a portata di mano per i nostri clienti“.

Un portavoce di Quintessentially ha dichiarato all’ Independent che: “Il gruppo Quintessentially condanna completamente l’invasione del presidente Putin in Ucraina, e con i nostri partner in tutto il mondo stiamo lavorando per collegare i nostri soci, fornitori e aziende con le organizzazioni di beneficenza che raccolgono fondi per l’Ucraina”.

L’ex leader conservatore Ian Duncan Smith ha chiesto che la politica britannica venga “ripulita” dal denaro russo, dichiarando: “Ci sono tutti i partiti politici: dobbiamo tutti ripulire la casa … Penso che dovrebbe essere tutto rivisto, tutto ciò che è successo in passato”. Duncan Smith ha poi aggiunto che non sono stati solo i politici ad essere troppo permissivi nell’accettare denaro russo, ma anche “avvocati, agenti immobiliari, contabili – facilitatori” che ora dovrebbero riconsiderare i loro ruoli.

La notizia arriva mentre Johnson affronta il crescente sdegno sull’accettazione da parte del suo partito di donazioni da ricchi oligarchi russi legati a Putin, con molti che chiedono azioni più dure nei confronti di questi ultimi, chiedendosi allo stesso tempo perché il governo sia così lento ad agire. Il ministro degli esteri ombra David Lammy ha dichiarato che è “totalmente inaccettabile” che più di una settimana dopo la brutale invasione dell’Ucraina da parte di Putin, solo 11 oligarchi abbiano ricevuto sanzioni economiche da parte del governo britannico. (cm)

I finanziamenti esteri del FN

Nel 2014 il sito d’investigazione francese Madiapart ha rivelato l’esistenza di un prestito in favore dell’allora leader del Front National Marine Le Pen, prestito da nove milioni di euro, da parte della First Czech Russian Bank (FCRB). Nella vicenda un ruolo da intermediaro sarebbe stato svolto dal deputato europeo del Rassemblement bleu Marine (legato al FN) Jean-Luc Schaffhauser, e dal deputato russo Alexandre Babakov. In cambio l’eurodeputato francese avrebbe ricevuto un compenso di 140.000 euro.

La leader del FN avrebbe ammesso l’esistenza del prestito, negando però qualsiasi tipo di ingerenza da parte del governo russo.


Lo stesso anno il tesoriere del FN Wallerand de Saint-Jouste avrebbe aggiunto che una parte di quel prestito, pari a due milioni di euro, era già stata versata nelle casse del partito francese di estrema destra.
I media francesi si sono a lungo interrogati sull’eventuale ingerenza del governo russo nella politica transalpina, posto che la banca FCRB era a quel tempo gestita da un manager russo notoriamente vicino al Kremlino, Roman Yakubovich Popov.
La stessa banca era stata in origine fondata (1966) per favorire i progetti di investimento Russi, o a capitale misto, nella Repubblica Ceca.

Stando ad un articolo pubblicato nel 2018 dal Washington Post la banca russa in questione avrebbe affrontato nel 2016 una procedura di fallimento a seguito della quale taluni crediti, tra cui quello al partito francese FN, sarebbero stati ceduti prima ad una società che commercializza auto, e poi nel 2016 ad una società russa che si occupa della vendita di aerei militari usati, la Aviazapchast, quest’ultima gestita da ex appartenenti ai servizi segreti russi.

Il deputato russo vicino a Putin
Eletto per la prima volta alla Duma nel dicembre 2003, dal 2007 al 2011 Alexandre Babakov è stato nominato presidente del Parlamento, mentre dal 2016 al 2021 è stato eletto al Senato.
Ex responsabile del partito nazionalista russo Rodina, di cui fu a lungo finanziatore, Babakov è considerato oltre che l’uomo chiave del prestito al FN anche uomo vicino al presidente russo Vladimir Putin. In cambio l’ex ufficiale dell’FSB lo avrebbe nominato consigliere per la cooperazione con le organizzazioni russe all’estero.

Come riferito sempre da Mediapart riportando alcuni documenti postati sul suo sito dall’oppositore russo Alexei Navalny, in epoca antecedente all’erogazione del prestito al FN Babakov avrebbe effettuato ingenti investimenti in Ucraina e in altri paesi, tra cui la Repubblica Ceca.
In particolare come riferito anche dal progetto OCCRP nei Panama Papers, dal 2007 al 2012 Babakov sarebbe stato titolare di una società, la AED International Ltd, domiciliata presso il paradiso fiscale delle Isole Vergini Britanniche.

Nel settembre 2011 Babakov avrebbe ceduto detta società alla figlia Olga. All’epoca il regolamento interno della Duma non vietava ai rappresentanti eletti di possedere società off shore, a patto però di rivelare la loro esistenza in un documento ufficiale, in base alle norme anti-corruzione.
Tale documento non veniva però reso pubblico, e dunque solo alcuni appartenenti agli apparati governativi lo avrebbero potuto consultare. La dichiarazione di trasferimento della proprietà della AED Intrernational Ltd in favore della figlia è stata fatta in previsione della partecipazione del Senatore alle elezioni nazionali russe del 2011.

Nel 2014 Babakov avrebbe rivelato di avere percepito un reddito di 4,5 milioni di rubli l’anno, pari a 128.000 dollari. Due anni prima lo stesso aveva detto di avere guadagnato solo 2 milioni di rubli (64.000 dollari). Stando ad alcuni documenti ufficiali Babakov avrebbe condotto una vita molto modesta, senza mai arrivare a possedere ne una vettura ne un’abitazione di proprietà.

Le proprietà immobilairi della famiglia Babakov
Secondo i documenti detenuti dallo studio legale Mossak Fonseca, Babakov sarebbe invece titolare di una serie di abitazioni di lusso sparse per il mondo, tra cui un appartamento a Londra e uno a New York, non lontano da Hyde Park. Babakov avrebbe inoltre acquistato un castello con una proprietà, valutato 11 milioni, a 37 km da Versailles oltre ad un appartamento a Parigi non distante dalla Torre Eiffel.

Come riferisce ancora da Mediapart per acquistare la proprietà di Versaille, il cui parco è stato classificato come monumento storico, è stato impiegata la Societè Immobiliere du Chateau creata nel 1999, che per concludere l’acquisto avrebbe versato un importo pari a 13,35 milioni di franchi francesi.
Ad amministrare quella società sarebbe l’avvocato e uomo d’affari russo Alexandre Grass, specializzato nella gestione di ingenti patrimoni. Tra i suoi clienti ci sarebbe anche il patron del Chelsea Football Club Roman Abramovich.

A chi scrive risulterebbe che la SCI du Chateau De St Leger, con un capitale di 1.524,49 euro e la sede sociale in 78 avenue Raymond Poincarè (75116 Parigi), non avrebbe mai depositato un bilancio. Dal 10 maggio 1999 ad oggi la società immobiliare posseduta dai due figli del senatore russo Babakov non avrebbe mai reso pubblico un suo documento finanziario ufficiale, così come è possibile verificare su fonti aperte. Si tratta in questo caso di una condotta illegale, per la quale sarebbe previsto però solo il pagamento di un’ ammenda pecuniaria.

Oltre ai due soci maggioritari Olga e Mikhali Babakov, tra i titolari di quote di capitale della SCI du Chateau De St Leger ci sarebbe anche la società Garrat Investments Ltd, società di diritto inglese con sede a Cardiff (Walmar House, 288 Regent Street W183AL Londra UK).

Tornando al patrimonio di A. Babakov, secondo quanto riportato dai Panama Papers questi sarebbe uno dei quattro azionisti della società VS Energy, una holding che detiene pacchetti azionari di società del settore energetico oltre che di alcune catene di Hotel. La holding in questione controllerebbe direttamente una ventina di hotel e di centri commerciali sparsi per il mondo, capaci di fatturare nel 2011 28 milioni di dollari.

Il prestito arabo
Nel 2017 sempre Mediapart ha rivelato l’ottenimento di un secondo prestito da parte del Front National, da 8 milioni di euro. A quell’epoca il partito di estrema destra francese navigava in pessime acque, e a una settimana dal deposito dei libri contabili in tribunale ecco l’arrivo quasi per magia dell’uomo della provvidenza. Un donatore di nazionalità francese ma residente in Africa, che versa nelle casse esangui del FN ben 8 milioni di euro.

Mediapart ha svelato che il misterioso donatore, Laurent Foucher, avrebbe erogato la somma in questione attraverso una banca con sede ad Abu Dabi, anche se la precedente provenienza di quei fondi non è mai stata rivelata, impiegando come vettore una società finanziaria basata negli emirati, la Noor Capital. In realtà i primi contatti tra la Le Pen ed esponenti degli Emirati Arabi sarebbero avvenuti nel 2014. A differenza del prestito russo però, di cui a seguito della sua cessione si sarebbero perse le tracce, il prestito “arabo” sarebbe stato totalmente rimborsato dal FN.

I due prestiti in questione, sia quello russo che quello arabo, avrebbero dato origine nel 2016 a due indagini distinte da parte della magistratura francese.
A finire sotto la lente dei giudici transalpini sarebbero state le provvigioni percepite dai due intermediari coinvolti nelle due operazioni.

Il nuovo prestito della banca ungherese al RN
Stando a quanto riportato dai siti RTL e Mediapart, il Rassemblement National avrebbe recentemente ottenuto un prestito da 10,6 milioni di euro da una banca ungherese.
Il prestito in questione, di cui lo staff del partito non ha rivelato il nome dell’istituto ungherese coinvolto, servirebbe a finanziare la campagna per le presidenziali in corso in Francia.

Lo stato maggiore del RN avrebbe fatto sapere che esisterebbe una clausula di confidenzialità che impedirebbe di rivelare il nome della banca coinvolta, pena l’annullamento dell’operazione. Stando alle fonti giornalistiche, il partito di estrema destra avrebbe trovato sia in patria che un pò ovunque in Europa le porte di tutti gli istituti di credito sbarrate, ed avrebbe deciso così di rivolgersi ad una banca ungherese per poter sostenere il costo della campagna elettorale in corso.

Secondo alcune indiscrezioni un ruolo determinante nella negoziazione del prestito sarebbe stato svolto da un intermediario, il cui nome però non è stato rivelato.
Ci si chiede se i buoni rapporti che legano la Le Pen al presidente ungherese Viktor Orban siano la spiegazione di questa apertura, apparentemente inattesa.

Marine Le Pen e Orban intrattengono da sempre ottimi rapporti, sia politici che personali, facendo entrambi parte di quel gruppo di partiti europei identitari artefici dell’iniziativa denominata Defend Europe, che si tiene ogni anno in uno dei paesi aderenti e che promuove il ritorno alla famiglia e ai valori tradizionali, oltre alla chiusura delle frontiere europee di fronte alle tendenze culturali considerate straniere, e ai flussi migratori in genere.

L’ultimo consesso si sarebbe tenuto a Madrid lo scorso 29 gennaio. In quell’occasione erano presenti, oltre al padrone di casa Santiago Abascal leader del partito spagnolo di estrema destra Vox, anche il premier polacco Mateusz Morawiecki e i leader di Austria, Belgio, Olanda, Estonia, Lituania, oltre ovviamente ad Orban e alla Le Pen. Molto atteso anche il leader della Lega Matteo Salvini, che però ha dovuto dare forfait per via delle elezioni del Presidente della Repubblica.

L’ospite dell’iniziativa, Santi Abascal, ha postato un tweet che individua i “nemici” di Defend Europe 2022. Questi sarebbero individuati nella saldatura di un coacervo di tendenze culturali quali il comunismo, l’Islam e la globalizzazione. E’ contro queste culture che i leader delle differenti realtà politche convenute a Madrid si starebbero battendo, e dalle quali intenderebbero “difendere l’Europa”. Dopo avere stigmatizzato la comunità LGBT e i migranti, Abascal ha rivendicato la difesa della “famiglia tradizionale”, così come dimostrano del resto i legami che ciascuno dei partiti intervenuti nella capitale spagnola intrattiene in patria con le organizzazioni appartenenti al World Congress Families.

Si tratta di una coalizione sorta nel 1997 negli Stati Uniti, che promuove i valori e lo stile di vita della destra tradizionale. In tal senso essa si oppone apertamente ai matrimoni tra persone dello stesso sesso, alla pornografia e all’aborto. Il WCF è presente un pò in tutto il mondo, finanziando organizzazioni omologhe in tutti i continenti.

L’essersi schierato apertamente nel 2013 in favore della legge contro la propaganda LGBT, o legge contro la propaganda gay che intendva proteggere i minori dal diniego dei valori della famiglia tradizionale, ha valso al WCF il suo inserimento tra le organizzazioni considerate gruppi di odio (hate groups) nei confronti delle persone e delle organizzazioni LGBT.

I principali sponsor in europa del WCF sono Konstantin Malofeyev e Vladimir Yakunin, due oligarchi russi molto legati al Kremlino attivi nel finanziare iniziative culturali favorevoli alla Russia e alla chiesa Cristiano Ortodossa, nei paesi dell’ex Unione Sovietica.

E proprio la diversa posizione riguardo a quanto stava allora accadendo in Ucraina costituisce un palese indicatore di una visione geopolitica pro russa. La dichiarazione finale del summit di Madrid avrebbe inizialmente condannato l’aggressione russa nei confronti dell’Ucraina. Ma se i polacchi hanno sottolineato questo fatto, Orban e la Le Pen hanno invece cercato di assumere una posizione più diplomatica nei confronti del Kremlino. Horban dal canto suo ha sottolineato la necessità di riprendere un dialogo pacifico verso una de-escalation militare. (cm)

L’impatto sul clima dell’industria alimentare

Dopo quello petrolifero, il comparto industriale responsabile del principale impatto sull’ambiente sarebbe quello alimentare. Questo è quanto emergere da uno studio realizzato dall’organismo indipendente Institute for Agricultural & Trade Policy (IATP), che prende in esame sia l’attività di allevamento che quella della trasformazione degli alimenti.

Come scrive lo IATP nel suo rapporto “Emission Impossible Europe”, tale tendenza sembra non avere subito alcun mutamento neanche a seguito della pandemia, di cui come sappiamo buona parte della responsabilità nella creazione del virus è legata agli allevamenti intensivi.

Lo IATP ha calcolato che delle 35 principali aziende produttrici di carne e di latticini, con impianti sparsi tra l’Unione Europea e la Svizzera, la maggior parte di queste non ha fino ad ora reso pubblici i suoi dati sulle emissioni di gas serra.

In particolare, delle venti prese in esame dallo studio solo tre hanno assunto concretamente l’impegno a ridurre le loro emissioni complessive.

Tra le imprese del comparto allevamento, nessuna di queste si è impegnata a ridurre il numero di capi inseriti nella propria catena di produzione, catena che è alla base del 90% delle emissioni di tutto il comparto carne e latticini.

In un rapporto del 2018 redatto congiuntamente con l’associazione no-profit Grain, IATP ha indicato come il livello delle emissioni di gas serra rilasciate dal comparto del latte abbia raggiunto quello dell’ industria petrolifera.

In un rapporto successivo, datato 2020 e intitolato Milking the Planet, IATP ha fatto vedere come le emissioni dello stesso comparto sarebbero da tempo in continua crescita.

Ma non solo. Con la scusa del cambiamento climatico e della necessità di ammodernare e rendere meno inquinante il comparto produttivo, sia il settore caseario che l’allevamento di bovini facevano richiesta di contributi pubblici, ritenuti essenziali per abbattere in maniera sostanziale le emissioni di gas serra.

Delle principali venti imprese che hanno ricevuto tali contributi, solo dieci di queste hanno adottato un piano industriale volontario per abbattere l’impatto sull’ambiente, piano che si è poi rivelato essere di pura facciata. Quasi tutti questi progetti si basavano sulla riduzione di emissioni per chilo di carne o per litro di latte prodotto.

A ban vedere tutte queste misure risultano un controsenso, tenuto conto costante espansione del settore. Così come lo è il sistema di compensazione delle emissioni di CO2, che si fonda sul libero mercato. O la cattura di una parte del metano proveniente dalle deiezioni animali per la sua trasformazione in biogas, al fine di accedere alle sovvenzioni statali previste per la produzione di energia verde.

Di fatto, anche se le emissioni prodotte dalle imprese di questo comparto sono in continua crescita, nessun governo dell’UE ha ritenuto di dover attribuire loro alcuna responsabilità. E di dover adottare delle misure nel tentetivo di limitarle.

E se da una parte l’UE si appresta a varare una “Carbon Farming Initiative”, nell’ambito dei suoi piani per stabilire nuove regole per il clima e l’agricoltura e rimuovere il carbonio dal Green Deal, dovranno essere i singoli governi dei paesi membri ad obbligare le proprie imprese del comparto caseario e di quello dell’allevamento ad impegnarsi in una riduzione delle emissioni.

I risultati della nuova ricerca targata IATP mostrano come solo venti della principali imprese europee produttrici di latte e carne emettano l’equivalente di oltre la metà delle emissioni di Inghilterra, Francia e Italia messe insieme.

Più in particolare le venti principali imprese del comparto alimentare producono il 131% delle emissioni dell’Olanda, il 73% di quelle della Spagna e il 29% di quelle della Germania.

Facendo un raffronto con il comparto petrolifero, le emissioni delle venti principali imprese dell’alimentare equivalgono approssimativamente a quelle prodotte dal gruppo ENI, pari a due terzi delle emissioni di Glencore e Total, a più della metà di quelle di Chevron (55%), al 42% di quelle di ExxonMobil, al 44% di quelle di Shell e di BP, e ad una quantità superiore alle emission di RWE o ConocoPhillips.

Le loro emissioni cumulate del comparto alimentare (considerando tutta la filiera) equivalgono al 48% del carbone consumato nell’intera UE (2018), o a più di 53 milioni di autovettire marcianti per un intero anno solare.

E ancora, l’insieme delle emissioni di 35 delle maggiori società produttrici di carne bovina, suina, avicola e delle imprese del settore lattiero-caseario, con sede in Europa, sono pari a quasi il 7% delle emissioni totali dell’UE a 28, per quel che riguarda il 2018.

Ma solo quattro tra queste venti, Arla, Danone, FrieslandCampina e Nestlè, includono nei dati relativi alle loro emissioni anche quelli della loro rete di approvvigionamento. E solo due di queste quattro forniscono con ogni dettaglio le emissioni della loro rete di approvvigionamento.

Sempre di queste quattro, solo tre (Nestlè,FrieslandCampina e ABP) hanno annunciato di volere adottare misure per abbattere le loro emissioni complessive.

Non esistono prove concrete che anche una sola di queste società stia prendendo in considerazione l’ipotesi di modificare il proprio modello di produzione basato su allevamenti su larga scala.

La società irlandese di trasformazione di carne bovina ABP, che ha ufficialmente fissato un obbiettivo volontario di abbattimento delle emissioni, ha di fatto aumentato queste ultime del 45% tra il 2016 e il 2018.

Nello stesso periodo anche il gruppo tedesco di trasformazione della carne Tonnies ha aumentato le sue emissioni del 30%. Stessa cosa per uno dei principali trasformatori danesi di carne di maiale, la Danish Crown, che ha aumentato le emissioni di gas a effetto serra (GHG) del 2%. E questo malgrado la società abbia annunciato di volere raggiungere il livello di emissioni 0 per il 2050.

La Germania, che costituisce uno dei principali inquinatori da gas serra attraverso l’allevamento, non ha neanche una società del comparto alimentare che abbia annunciato di volere ridurre le emission di gas da effetto serra (GHG).

Diverse società del gruppo francese Groupe Bigard e di quello spagnolo Coren non sono state capaci di dimostrare neanche un minimo livello di trasparenza sulle operazioni svolte, compreso il numero di animali macellati annualmente.

Le cinque aziende avicole esaminate dall’IATP emettono l’equivalente del 20% delle emissioni totali del settore avicolo all’interno dell’UE. Ma malgrado ciò, solo tre di queste riportano parzialmente le loro emissioni, e nessuna di loro ha stabilito tra i suoi obbiettivi la loro riduzione.

Tra il 2005 e il 2018 le esportazioni UE di pollame, di latte e di carne suina sono aumentate rispettivamente del 93%, 45% e 58%.

L’aumento delle importazioni di pollame, di carne bovina e di quella suina è avvenuto in modo significativo nello stesso intervallo di tempo.

Le tendenze del commercio e del consumo dell’UE mostrano che un’attenzione ristretta alla riduzione del consumo di carne e di latticini in Europa avrebbe un effetto limitato sulla riduzione delle emissioni complessive per il comparto dell’allevamento. E questo finché si ignora l’enorme influenza della regione sulle esportazioni globali di carne e latticini, e più in generale sulla politica commerciale dell’UE.

L’86% di tutta la carne e i latticini nell’UE più il Regno Unito provengono da 10 paesi europei: Germania, Francia, Spagna, Polonia, Italia, Paesi Bassi, Danimarca, Irlanda, Belgio e Regno Unito. Le aziende descritte in questo rapporto hanno sede o lavorano il bestiame in questi 10 paesi.

Per un cambiamento radicale nell’agricoltura europea i 10 paesi in questione e l’UE nel suo complesso devono regolamentare le aziende produttrici di carne e latte.

All’industria non deve essere permesso di trarre profitto mentre trasferisce alla collettività i costi del sistema estrattivo di produzione di massa di alimenti di origine animale. I politici dell’UE hanno appena concordato, attraverso la politica agricola comune (PAC), un’altra elargizione in favore dell’industria alimentare, per quanto riguarda il periodo 2023 – 2027.

Questa decisione avrà un effetto devastante sull’azione climatica. I piani strategici nazionali della PAC possono essere ancora trasformati in un’opportunità, allineando gli obiettivi climatici dell’UE a quelli globali, attraverso un’azione concreta sull’agricoltura che leghi i finanziamenti a livello nazionale a una transizione verso l’agricoltura sostenibile.

La PAC 2027 deve essere totalmente riscritta per essere veramente in grado di trasformare il clima e la biodiversità, reindirizzando finanziamenti pubblici prevedibili e stabili a sostegno delle comunità rurali, in prima linea per una giusta transizione.

I mercati speculativi del CO2 per l’agricoltura, come immaginato dalla Commissione europea (CE) nella sua prossima comunicazione sui cicli del carbonio sostenibile, rappresentano una soluzione sbagliata.

I fondi pubblici, come gli eco-sistemi della PAC e gli aiuti di Stato, non dovrebbero essere dirottati verso i consulenti del CO2 allo scopo di sostenere il costoso monitoraggio, il reporting e la verifica dei crediti di carbonio per la cattura temporanea del carbonio sulla terra.

Tali fondi pubblici dovrebbero invece essere utilizzati direttamente per sostenere gli agricoltori che già praticano l’agricoltura biologica e per la transizione dell’agricoltura europea verso un approccio olistico-ecologico.

Sei anni dopo l’accordo di Parigi e 18 anni dopo l’accordo di Kyoto, che ha dato mandato ai governi di ridurre le emissioni da gas serra, i decisori non dispongono ancora di dati fondamentali come i volumi delle emissioni dei maggiori produttori di carne e latticini nell’UE.

In assenza di governi che istituiscano regimi normativi responsabili, le iniziative volontarie stanno proliferando. Gli obiettivi che ne derivano sono, nel migliore dei casi, inspiegabili, privi di parametri e indicatori chiari e armonizzati, oltre che di una solida verifica indipendente. Nella peggiore delle ipotesi si tratta di piattaforme per il greenwashing aziendale.

L’ultimo atto di accusa dell’Intergovernmental Panel on Climate Change (IPCC) sulle nostre prospettive di limitare il riscaldamento a 1,5°C, richiede un cambiamento sistematico totale di ogni settore, compresa l’agricoltura. Ciò appare possibile solo se i governi agiranno rapidamente e con decisione sulla crisi climatica, come hanno fatto con l’attuazione di politiche per limitare la pandemia di COVID-19.

L’IPCC individua il metano come un’emissione chiave da tagliare, per poter guadagnare tempo per eliminare le emissioni dei combustibili fossili in prospettiva.

Gli Stati Uniti e l’UE hanno risposto con una proposta per un Global Methane Pledge, che stabilisce un taglio aggregato del 30% delle emissioni di metano entro il 2030, tra tutti i paesi disposti a farlo.

E’ necessario avere un contributo comune per indirizzare sia i fondi pubblici che la politica climatica e agricola a sostegno di una transizione verso un’agricoltura più sostenibile.

Ma ciò non accadrà se l’industria della carne e quella casearia continueranno a cooptare i governi e le narrazioni della società civile sull’agricoltura rigenerativa e quella biologica.

Ciò avverrà solo quando i governi si sveglieranno dalla loro crisi esistenziale, e cominceranno a regolamentare l’agrobusiness. (cm)

Controllo dello Stato o libero mercato?

La legalizzazione della cannabis apre ai rischi di un controllo del mercato da parte di Big Pharma

Le elezioni presidenziali del 2016 negli Stati Uniti sono state salutate con molto entusiasmo dai sostenitori della legalizzazzione della cannabis.

In ben tre stati, Massachusetts, Nevada e Maine, un referendum popolare ha espresso la volontà della maggioranza dei cittadini in favore dell’uso ricreativo della cannabis. In altri stati, dove i Repubblicani sono da anni al potere come il Nevada, il risulatato è stato invece se così possiamo dire, in controtendenza.

Un’organizzazione apartitica, la Arizonans for Responsible Drug Policy (cittadini dell’Arizona per une politica responsabile dei medicinali ARDP) ha finanziato una costosa campagna di informazione tesa ad affossare il referendum analogo a quello tenutosi in Massachusetts.
La proposta, per la verità molto più moderata rispetto al testo presentato negli altri tre stati federali, prevedeva la possibilità di consentire la vendita della cannabis a fini ricreativi solo ad adulti che avessero compiuto i 21 anni di età.

Un ruolo decisivo per la vittoria dei no lo hanno sicuramente avuto i costosi spot pubblicitari finanziati dalla ARDP, che scoraggiavano i genitori del Nevada a votare in favore della cannabis. Una forma di terrorismo psicologico teso a esagerare i rischi connessi al consumo della cannabis, che ha avuto però il merito di conseguire il risultato sperato. Il 51% degli elettori dell’Arizona si è infatti espresso contro la legalizzazione.

Il risultato era prevedibile, posto che anche il governatore dello Stato, il repubblicano Doug Ducey, si era espresso contro. Stessa cosa avevano fatto la Arizona Whine and Spirits Wholsale Association, la principale organizzazione che riunisce i venditori di liquori dello Stato, così come le associazioni sindacali dei corpi di polizia. Tuttavia alcuni osservatori critici non hanno potuto fare a meno di notare come a fare la differenza per la campagna del No fosse stata una donazione da mezzo milione di dollari in favore della ARDP. Donazione sottoscritta dalla società farmaceutica Insys, con sede a Chandler, Arizona.

In previsione dell’approvazione di un futuro utilizzo farmaceutico della cannabis, molte società farmaceutiche, inclusa la Insys, hanno pensato di sviluppare degli antidolorifici a basa di cannabis, che sono poi stati messi sul mercato con esiti molto positivi in termini di vendite.
La Insys in particolare ha ideato e introdotto sul mercato un antidolorifico chiamato Syndros, disponibile nello stato dell’Arizona e in tutti quelli in cui è ammesso l’uso medico della cannabis, esclusivamente dietro prescrizione medica.

Assumibile per via orale, il Syndros è il primo medicinale a base di cannabis disponibile in soluzione liquida ad avere ricevuto l’autorizzazzione della Food and Drugs Administration. Il suo impiego previsto è per il sollievo dalla nausea dovuta ai postumi della chemioterapia o delle terapie previste per HIV/AIDS, responsabili dell’innappetenza che si riscontra nei pazienti sottoposti a terapie di questo tipo.

Il collegamento diretto tra legalizzazione della cannabis e vendite di prodotti a base di cannabis per uso medicale da parte di Big Pharma si evince chiaramente in un documento della Insys del 2007, reso pubblico su richiesta della SEC, l’autorità di controllo sulle società quotate, una delle procedure da assolvere in previsione della quotazione in borsa della Insys.

Nel documento il legale della Insys scrive che “La legalizzazione negli Stati Uniti della marijuana, o comunque dei cannabinoidi non sintetici, potrebbe limitare in modo significativo il successo commerciale del dronabinolo (cannabinolo liquido)“.

E ancora: “Se la marijuana o i cannabinoidi non sintetici saranno legalizzati negli Stati Uniti le vendite del dronobinolo si ridurranno probabilmente in modo apprezzabile, e la nostra capacità di generare profitto, così come le prospettive di profittabilità della società, saranno materialmente ostacolate“.

Nelle parole del legale della società farmaceutica sono racchiusi quei timori legati al comportamento degli americani, in base al quale dovendo questi scegliere tra un prodotto frutto di una sintesi chimica e il suo equivalente in natura, questi non avrebbero alcuna esitazione a scegliere quest’ultimo.

Un comportamento legato non tanto e non solo ad una supposta preferenza per i prodotti “a base naturale”, quanto ad un giustificato timore circa gli effetti indesiderati legati al consumo del dronobinolo.
Tra questi, e questo spiega in parte la forte competizione tra gli oppioidi a base sintetica e i cannabinoidi a base naturale, va citato il fatto che questi ultimi non generano dipendenza, e soprattutto non presentano il rischio di overdose.

Il management della Insys come degli spacciatori di strada
Il primo caso di incriminazione del top management di una società farmaceutica per la commercializzazione e la prescrizione illecita di oppioidi, è quello emerso nel 2019 e che ha visto coinvolta proprio alla Insys.

Il fondatore e quattro ex manager della Insys therapeutics Inc sono stati accusati, nel maggio 2019, da una giuria federale di Boston di avere corrotto alcuni professionisti del settore medico, medici ed infermieri, spingendoli a prescrivere il Subsys, uno spray sublinguale ad elevato rischio di dipendenza e del quale Inssys detiene il brevetto, a dei pazienti affetti da tumore sottoposti ad un’ elevata sofferenza fisica, truffando il sistema sanitario statunitense (Medicare) e quello assicurativo in ambito medico.

Il capostipite ed ex CEO della Insys, il 76enne John N.Kapoor di Phenix, assieme all’ex direttore alle vendite Richard M.Simon(48), l’ex direttrice regionale alle vendite Sunrise Lee (38),l’ex direttore regionale alle vendite Joseph A.Rowan (45) e l’ex vice presidente dellal società Michael J.Gurry (55), sono stati accusati da una corte federale di essere i responsabili di un’ organizzazione criminale (legge Rico) dedita allo smercio di oppiodi ad alla corruzione di professionisti della sanità.

Prima dell’inizio del processo altri due top managers della Insys, l’ex CEO Michael Babich e l’ex vice presidente alle vendite Alec Burlakoff, si erano dichiarati colpevoli ed avevano eccettato di testimoniare, svelando le responsabilità degli altri top manager della società.

Dal maggio 2012 al dicembre 2015 gli accusati hanno partecipato alla corruzione nei confronti di alcuni professionisti del settore medico, alcuni de quali erano impiegati presso strutture cliniche per malati di tumore, al fine di spingerli a prescrivere ai loro pazienti il ritrovato medico a base di Fentanyl, il Subsys, anche se ciò non era strettamente necessario.

Il Subsys è un potente antidolorifico, uno spray sublinguale a base di oppioidi capace di sviluppare rapidamente una dipendenza, studiato per alleviare il dolore fisico.
Gli accusati utilizzavano informazioni riservate per individuare quei professionisti che prescrivevano insolitamente elevati volumi di antidolorifici, ovvero che avevano dimostrato di avere una forte propensione a farlo.

Quindi li avvicinavano, proponendogli di effettuare un certo numero di prescrizioni del Subsys, e in seguito poi di un elevato dosaggio dello stesso prodotto, in cambio di un compenso. Quest’ultimo, corrisposto attraverso il versamento di un cachet pagato per la partecipaziomne ad una conferenza, variava a secondo del numero di prescrizioni effettuate, e in seguito anche dei dosaggi crescenti dell’antidolorifico sublinguale.

Gli accusati sono anche stati capaci di misurare “l’efficacia” della loro attività criminale, confrontando il volume del fatturato conseguito, con il “contributo” versato a ciascun professionista sanitario coinvolto nella truffa.

Tale parametro aveva lo scopo di eliminare o ridurre il prezzo pagato a quei professionisti la cui “efficacia” in termini di fatturato si rivelava nulla o di scarso rilievo. Il contributo considerato attendibile dagli accusati doveva essere pari ad almeno il doppio della somma pagata a ciascun operatore sanitario per la sua corruzione.

La corruzione poteva avvenire anche attraverso altre forme. Oltre al programma di conferenze finanziato dalla Insys, per incrementare la visibilità della società farmaceutica venivano organizzati una serie di pranzi e di cene, ai quali venivano invitati professionisti sanitari di volta in volta selezionati. Il programma di conferenze era in realtà una farsa, creata appositamente per giustificare le dazioni di denaro, in favore di quei professionisti che accettavano di prescrivere artatamente il Subsys.

Per truffare il sistema sanitario nazionale statunitense, facendo prescrivere il Subsys anche a chi non ne aveva bisogno, l’ex top management della Insys istituiva un centro di rimborso (Insys Remboursement Center IRC), che aveva lo scopo di ottenere in anticipo e direttamente dalle società assicuratrici, l’autorizzazione per il pagamento del medicinale prescritto.

A partire dall’ottobre 2012 i dipendenti dell’IRC avevano cominciato a fingersi dipendenti dei professionsti medici corrotti, al fine di ottenere dichiarazioni false sulle diagnosi dei pazienti, allo scopo di garantire l’approvazione immediata del Subsys da parte delle società assicuratrici.

Il ruolo delle case farmaceutiche nell’epidemia da oppioidi
E’ proprio grazie al ruolo svolto da società farmaceutiche come la Insys, o in passato come la Purdue Farma con riguardo all’antidolorifico a base di oppioidi OxyContin, che si è sviluppata negli Stati Uniti ed in particolare in alcuni Stati, la crisi degli oppioidi.

La prescrizione indiscriminata di potenti antidolorifici a base di oppioidi, capaci di generare in breve tempo una forte dipendenza fino a spingere i soggetti in cura all’utilizzo di droghe pesanti come l’eroina o il crack, è un fenomeno che ha afflitto negli ultimi venti anni quasi tutti gli Stati Uniti, senza che prima d’ora fosse stato possibile dimistrare in sede giudiziale una diretta responsabilità di quelle case farmaceutiche che li producevano.

Ora, e per la prima volta, l’azione criminale del management di una società farmaceutica produttrice di antidolorifici (il Fentanyl molto più potente e pericoloso dell’eroina e della morfina), viene riconosciuta da una corte federale attraverso l’indivuduazione di una vera e propria organizzazione criminale.

Organizzazione che comprendeva, oltre al top management della Insys, lo stesso CEO e fondatore della società John N.Kapoor, il quale con un investimento iniziale di 80 milioni di dollari ha visto il valore della società da lui posseduta salire in borsa (NYSE) fino a raggiungere il valore di 1 miliardo di dollari.

Non si può fare a meno di notare come, anche in occasione della prima indagine investigativa a carico della Insys, indagine avviata a seguito delle rivelazioni fatte da alcuni medici avvicinati inizialmente dalla stessa società, il valore delle azioni di quest’ultima comntinuasse a salire come se nulla stesse accadendo.

In quel momento il valore della Insys in borsa era di circa 500 milioni di dollari, e molti analisti, continuando ad esservare la crescita esponenziale delle vendite dei loro farmaci ed in particolare del Subsys, seguitavano a consigliare ai loro clienti di investire in quella società, prevedendo nella peggiore delle ipotesi la sua condanna al pagamento di una multa.

Così come già accaduto alla Purdue Pharma, costretta a pagare nell’ottobre del 2020 una multa da 8 milioni di dollari, per la responsabilità penale nella commercializzazione dell’antidolorifico OxyContin.
Nessuna responsabilità penale è stata mai riconosciuta nei confronti degli azionisti e del management della Purdue Pharma.

Il fallimento di Purdue Pharma
Nel 2019 il Distretto meridionale di New York, che include oltre 500 contee comprese numerose tribù di nativi americani, ha citato in giudizio i principali azionisti della Purdue: Ricard, Jonathan, Mortimer, Kathe, David, Beverly, Theresa e Ilene Sackler.

L’azione legale, dovuta a una richiesta di danni legata alla serie di decessi connessi alla commercializzazione dell’OxyContin, includeva circa 1.600 cause intentate da parenti e familiari delle vittime dell’antidolorifico a base di oppioidi.

La società è stata la prima a doversi difendere dalle accuse sulla nocività e la superficialità con cui un farmaco così pericoloso veniva prescritto in modo indiscriminato.

Nel 2020 la famiglia Sackler è stata convocata da una Commissione parlamentare della Camera dei Rappresentanti, sul ruolo della Purdue Pharma e dei suoi azionisti nell’epidemia da oppioidi.

Dal 1999 al 2019 il numero delle morti negli Stati Uniti legate all’abuso di antidolorifici a base di oppioidi, essenzialmente Fentanyl e OxyContin, è quadruplicato. Nel conto venivano incluse anche le morti per overdose di eroina di pazienti che avevano sviluppato una dipendenza da antidolorifici a base di oppiodidi.

Dal 1999 al 2019 il numero stimato di morti sarebbe stato complessivamente pari a 500.000.
Nel marzo 2021 la Purdue Pharma ha presentato un piano di ristrutturazione che prevedeva la sua incorporazione in una nuova società, inclusa la realizzazione di una serie di programmi ideati per combattere l’epidemia da oppioidi.

Nel programma era previsto anche il pagamento da parte della famiglia Sackler di 4,2 miliardi in un arco di nove anni, per risolvere una seriedi cause intentate contro la società.

Questa exit strategy legale proposta dalla società è stata respinta da 24 procuratori generali dello stato di New York, oltre che dal procuratore generale di Washington DC, per i quali il fallimento della società farmaceutica non può costituire un limite ai rimborsi nei confronti delle parti offese, che in caso contrario costituirebbe un precedente negativo.

Di fronte alla bancarotta, diversi stati che avevano citato in giudizio la società hanno accettato di patteggiare. Sebbene la Purdue Pharma non abbia mai ammesso alcuna responsabilità, la famiglia Sackler ha accettato di non produrre più alcun tipo di antidolorifico a base di oppioidi. Purdue Pharma si è ufficialmente sciolta nel settembre del 2021.

Successivamente il giudice fallimentare ha riconosciuto come la famiglia Sackler, per ridurre le pretese di risarcimento, avesse spostato gran parte delle sue ricchezze su dei conti offshore. (cm)

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