La gestione dei pentiti di mafia: dal Protocollo Farfalla alla Convenzione AISI-DAP

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Mani libere con i detenuti, la possibilità di poterli interrogare in qualsiasi momento, senza permessi e carte bollate, e soprattutto senza che i magistrati, fatta eccezione per quelli del DAP, ne sappiano nulla.

Dopo il Protocollo Farfalla, il rapporto di collaborazione siglato nel 2004 tra il direttore de Sisde (oggi AISI) Mario Mori e quello del Dipartimento Penitenziario, Giovanni Tinebra, siamo ad un passo ulteriore.

Una “Convenzione” tra l’Aisi e il DAP, siglato nel 2010 dall’ex direttore dei servizi civili, Giorgio Piccirillo, e l’ex direttore del Dap Franco Ionta. 

Si tratta di un accordo basato più sulla conoscenza reciproca tra i due ex direttori che su una reale esigenza informativa.

E la questione assume un aspetto inquietante quando si scopre che il reale motivo dell’accordo è quello di mettere sotto osservazione otto boss mafiosi detenuti in regime di isolamento (41 bis).

Dunque le carceri diventano un grande fratello per i reclusi, con telecamere e microfoni piazzati senza l’autorizzazione dei magistrati, e la possibilità di spiare a piacimento chiunque e in qualsiasi momento.

E ovviamente la possibilità di interrogare direttamente i reclusi. E tutto questo rimesso al solo controllo del Copasir, la commissione parlamentare di vigilanza sui servizi.

In pratica quello quello che accade è che la gestione dei principali pentiti di mafia viene rimessa ai servizi, senza nessun filtro della magistratura, e quindi senza nessuna garanzia per i diritti degli imputati.

I rischi sono tanti, così come tante sono le informazioni che vengono lasciate esclusivamente in mano ai Servizi. L’art.8 della Convenzione infatti afferma che “Ciascuna delle parti  si impegna a non trasmettere a terzi ne a divulgare le informazioni e i documenti di cui sopra, senza il preventivo consenso dell’altra parte”.

Una esclusività delle informazioni che, a ben vedere, offre un’enorme tutela all’operato dei Servizi, soprattutto di fronte alla magistratura, la quale rimane all’oscuro sia, ripetiamo ancora una volta, sulla gestione dei pentiti, che su quanto accade all’interno delle carceri.

Non ci sarebbe nulla di male se la storia dei Servizi di questo paese non fosse così poco edificante: Dalla P2 al Golpe Borghese, al Piano Solo, passando per la Rosa dei Venti e il dossieraggio generalizzato del Sifar del generale De Lorenzo. Per non parlare dei depistaggi in quasi tutti i processi contro le stragi di stato. E, citando anche cose più recenti, le “Rendition“, e lo spionaggio di Tavaroli e Mancini, ufficialmente per conto della Telecom, o quello appaltato, durante il governo Berlusconi, al generale Pollari e a Pio Pompa, ai danni di giornalisti, politici e magistrati non graditi dal governo.

Andando un po’ indietro col tempo, ovvero alla decima legislatura, scopriamo che la Commissione di indagine sui servizi di informazione e sicurezza aveva evidenziato nella relazione conclusiva dell’on.Massimo Teodori come la magistratura si fosse già avvalsa, in maniera illegale, dei Servizi in funzione di polizia giudiziaria.

Il ministro degli Interni di allora, l’on. Scalfaro, ribadì come questo fatto costituisse un evento eccezionale, e come fosse necessario fare di tutto affinché “a questa eccezionalità non si arrivi…” La relazione ha accertato come, ben lungi dal rappresentare un’eccezionalità, l’intervento dei Servizi in operazioni di competenza della polizia, in particolare in operazioni antimafia, abbia rappresentato la regola piuttosto che l’eccezione.

In particolare tutta l’ambigua e illegale gestione dei pentiti è passata in gran parte attraverso i servizi, tanto da far parlare lo stesso ex ministro degli Interni  di una “pericolosissima confusione”.

A questo riguardo è venuta, in seguito, anche la conferma non priva di significato secondo cui l’organico dell’Alto Commissariato Antimafia fosse composto in prevalenza da ex dipendenti del SISDE.

Se a quel tempo esisteva una legge, la n.801 dell’ottobre 1977, la prima legge organica di riforma dei servizi, che stabiliva il divieto per i Servizi di svolgere funzioni di polizia giudiziaria, dall’altro riconoscendo alle mafie un potere eversivo di “antistato”  si ammetteva implicitamente la necessità di un suo contrasto “eccezionale”, attraverso degli organi adibiti alla tutela della sovranità delle istituzioni repubblicane.

Ma tutto questo, oltre a creare un’inutile duplicazione delle forze di polizia visto che di fatto i servizi svolgevano le funzioni di quest’ultima, attribuiva a questi un poter troppo grande privo dei necessari contrappesi di garanzia, come emerso in alcuni casi limite quali la vicenda Ciolini (SISMI), o l’uccisione di Pierluigi Pagliai (SISDE), o il rapimento dell’assessore regionale campano della DC, Ciro Cirillo (SISMI). Si è trattato, in tutti questi casi, dello svolgimento di una funzione surrogatoria da parte dei Servizi nei confronti della polizia giudiziaria.

Ma oltre a ciò è apparso chiaramente, evidenziato nei processi di Torino e Milano contro il cosiddetto “clan dei catanesi“, o nei processi contro la ‘ndrangheta che hanno visto protagonista il pentito Pino Scriva, o nel processo per la strage di camorra di Torre Annunziata con il capo centro del SISMI di Napoli emerso nel ruolo di facilitatore dei confidenti,  come il filo conduttore fosse rappresentato oltre che dalla violazione della legge n.801 dal fatto di avere compromesso in maniera irrimediabile la limpidezza e la regolarità dell’azione giudiziaria.

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