Il mistero dello scandalo bancario si infittisce

 

Roma 27 luglio – L’ apparente suicidio del finanziere italiano Roberto Calvi, conosciuto come “il banchiere di Dio”, il cui corpo senza vita è stato ritrovato lo scorso mese appeso al ponte dei Frati Neri a Londra, ha infittito il mistero sul grave scandalo finanziario in cui il Vaticano sembra essere gravemente coinvolto.

Le conseguenze economiche per la Chiesa Cattolica di Roma ammonterebbero a diverse centinaia di milioni di dollari.

Lo scandalo in questione, incentrato sulla perdita di 1,4 miliardi di dollari attraverso alcuni prestiti dubbi da parte del Banco Ambrosiano il principale gruppo bancario privato italiano, sta avendo tremende ripercussioni sul mondo della finanza mondiale, e solleva pesanti interrogativi in merito agli attuali sforzi tesi a disciplinare le operazioni in valuta estera nei confronti dei gruppi bancari internazionali.

 

Una strana inchiesta
Lo scandalo ha inoltre logorato le relazioni diplomatiche dell’Italia con il Vaticano, uno Stato autonomo situato al centro di Roma. Dietro le pressioni del governo oltre che dei principali esponenti della Chiesa, Papa Giovanni Paolo II ha ordinato un’ inusuale inchiesta sulle finanze vaticane da parte di tre banchieri vicini al mondo cattolico. Ma il governo italiano vorrebbe che il Vaticano accettasse una misura di responsabilità finanziaria relativamente alle perdite attese.

Come accade in genere in Italia per questo genere di scandali, vi sarebbero dei rapporti non verificati che coinvolgerebbero la criminalità organizzata, oltre alla Loggia P2, una loggia massonica recentemente scoperta con la finalità di sovvertire il governo.

Vi sarebbero inoltre dei rapporti che descriverebbero il Banco Ambrosiano come un possibile obbiettivo dei servizi segreti britannici, poiché la banca sarebbe sospettata di avere finanziato durante il conflitto nelle isole Falkland l’acquisto di una fornitura di armi per conto del governo argentino.

I primi sospetti sul Banco Ambrosiano da parte della Banca d’Italia risalirebbero al 1978, nel corso di un generale inasprimento delle misure sui fallimenti bancari, inasprimento che incontrò subito una forte resistenza da parte delle opposizioni.

L’ allora governatore della Banca d’Italia Paolo Baffi venne subito arrestato e allontanato dalla sua funzione. Il direttore generale della stessa banca Mario Sarcinelli, anche lui imprigionato per un breve periodo, avrebbe ora chiesto di ottenere un incarico da parte del governo come capo dei dipendenti pubblici presso il Ministero delle Finanze, ministero che partecipa al coordinamento del Tesoro e delle politiche della Banca Centrale italiana.

Ma toccò al successore di Baffi, Carlo Azeglio Ciampi, il compito di fare esplodere all’esterno lo scandalo Ambrosiano, in quello che viene diffusamente percepito a Roma come il trionfo dell’indipendenza politica della Banca d’ Italia.

Calvi, trovato morto all’età di 61 anni, era stato inizialmente assunto al Banco Ambrosiano di Milano con la qualifica di impiegato, anche se aveva già mostrato il desiderio di divenirne il presidente.

Durante la sua carriera, grazie una lunga serie di affari conclusi in maniera spettacolare, Calvi trasformò una semplice banca di livello regionale in uno dei principali operatori finanziari al mondo, capace di vantare nel 1981 attività per 18,7 miliardi.

Calvi , che aveva fatto ricorso contro una condanna a quattro anni di reclusione per esportazione illegale di valuta, era scomparso dal suo appartamento di Roma il 10 giugno 1982. La sparizione avveniva dopo che il banchiere aveva inutilmente cercato di impedire un’indagine da parte della Banca d’Italia su di una serie di prestiti, per un valore complessivo di 1,4 miliardi di dollari, concessi da alcune banche da lui controllate in favore di oscure società panamensi.

Cinque giorni dopo l’apertura di quell’indagine Calvi era scomparso, e la sua segretaria si era gettata dalla finestra della sede milanese del Banco Ambrosiano. Il cadavere di Calvi venne poi rinvenuto sotto il ponte dei frati neri a Londra, il 18 giugno 1982.

 

La caduta di un impero
Il panico sui mercati finanziari generato dalle notizie della morte di Calvi e dell’apertura di un’ inchiesta da parte della Banca d’Italia ha causato la caduta di un impero finanziario. Alla Borsa di Milano le azioni del suo gruppo hanno subito perdite del 30 e del 40%. A seguito della corsa da parte dei correntisti a ritirare i propri depositi, il Banco Ambrosiano ha dovuto fare ricorso ad un salvataggio da parte di un consorzio di cinque banche italiane, consorzio messo assieme dalla Banca Centrale.

All’inizio di quest’anno il Banco Ambrosiano Holding SA, una succursale lussemburghese del gruppo il cui capitale è detenuto per due terzi dal Banco Ambrosiano, è risultata insolvente per 400 milioni di prestiti esteri, ed è entrata perciò in amministrazione controllata. La Banca d’Italia ha programmato, il prossimo mercoledì, un meeting a Londra con i creditori della banca milanese.

La scorsa settimana le autorità creditizie delle isole Bahamas hanno sospeso per trenta giorni la licenza al Banco Ambrosiano Overseas Ltd “per permettere alla banca – come riferito dalla Banca Centrale delle isole Bahamas – di ricostituire una liquidità tale da consentirle di riprendere la sua normale attività”.

“La vicenda del Banco Ambrosiano – ha affermato l’ex governatore della Banca d’Italia Guido Carli – spinge a porsi interrogativi in merito alla situazione finanziaria del Vaticano – ma in realtà essa mostra la fragilità del sistema bancario internazionale, ciò che tutti quanti cerchiamo di preservare”.
“Il fallimento del controllo è in parte la normale patologia della finanza” sostiene Luigi Spaventa, un parlamentare italiano appartenente al gruppo indipendente nonché docente di economia.
“Ma è la morte di Calvi – ha poi aggiunto – a rivelare la presenza di elementi inquietanti”.
All’inizio di quest’anno Carlo De Benedetti il titolare della Olivetti, la grande società che produce macchine per ufficio nonchè uno dei più importanti uomini d’affari italiani, ha rilevato un’ingente quota azionaria del Banco Ambrosiano, per poi rivenderla alcuni mesi dopo sostenendo di essere rimasto “scioccato” per quello che vi aveva trovato.

 

Legami stretti con il Vaticano
Secondo quanto riferito da un vecchio funzionario che aveva preso parte alle indagini ma che desidera mantenere l’anonimato, lo scandalo del Banco Ambrosiano vede al centro la stretta e ambigua relazione tra Roberto Calvi e l’Arcivescovo Paul C.Marcinkus, un ecclesiastico di sessant’anni nato a Cicero, nello stato dell’Ilinois, che negli ultimi dieci anni aveva gestito l’istituto di credito del Vaticano in modo estremamente segreto e al di fuori delle regole.

Il nome ufficiale della banca è Istituto per le Opere Religiose, anche se normalmente viene definita con le sue iniziali italiane, IOR.

L’ Arcivescovo Marcinkus, un ex responsabile della sicurezza del Papa, è sempre stato negli ambienti finanziari una figura controversa. Come presidente della Banca Vaticana era stato chiamato a rispondere delle perdite stimate per le casse vaticane pari a 30 milioni di dollari, perdite causate dal crollo nel 1974 dell’impero economico del finanziere Michele Sindona.

Il sessantaduenne Sindona starebbe scontando in un carcere di New York una condanna a 25 anni, a seguito del fallimento della Franklin National Bank. La settimana precedente un giudice italiano aveva rinviato a giudizio Luigi Mennini, un dirigente della Banca Vaticana il cui livello è inferiore solo a quello di Marcinkus, per il ruolo avuto nello scandalo Sindona. (1a parte)

 

Tratto dall’articolo nel NYT del 28 luglio 1982

dal titolo “A spreading mistery in Italian bank scandal

Trad CM

Santovito e le armi alla Somalia

La documentazione prodotta dalla Commissione parlamentare sulla loggia P2 è suddivisa in nove Tomi, ai quali se ne aggiungono altri ventisei relativi ai documenti citati nelle varie relazioni (maggioranza e minoranza). Nel terzo, nel decimo e nel quindicesimo tomo troviamo la voce “traffici petroliferi“, mentre nel tomo ottavo e in quello ventitreesimo l’affaire ENI-Petromin. Sempre all’interno dell’ottavo tomo è indicata la voce “traffico d’armi“. Fra i documenti della Commissione parlamentare d’inchiesta sulla loggia P2, inseriti poi nelle carte dell’inchiesta sulla strage di Bologna, vi è un interrogatorio condotto dal Giudice Istruttore presso la procura di Trento Carlo Palermo, all’ex direttore del SISMI Giuseppe Santovito, iscritto alla loggia P2. Dall’inchiesta, che vide alla fine assolti tutti i principali indiziati, oltre all’ex direttore del SISMI emergono altri due personaggi: Glauco Partel, ex ufficiale di Marina, monarchico, divenuto in seguito prima agente della National Security Agency (NSA) e quindi consulente del ministero della Difesa come direttore del Centro Studi Trasporti Missilistici. E Massimo Pugliese, ex capo centro del SISMI a Cagliari, iscritto alla P2 ed amico di Santovito. Pugliese, tramite il meccanismo delle porte girevoli, dopo aver lasciato i servizi si ricicla come consulente per conto di diverse aziende produttrici di armi. Nella vicenda un ruolo di rilievo viene assunto da Rossano Brazzi, attore di cinema e di teatro e iscritto alla massoneria, per via delle sue amicizie negli Stati Uniti soprattutto nel campo del cinema. Amicizie grazie alle quali verrà cooptato all’interno di una supposta organizzazione dedita al traffico internazionale di armi, con il compito di curare le relazioni pubbliche.
L’affare somalo Nell’interrogatorio reso da Santovito il 30 aprile 1983 emergeva come questi, tra il 1973 ed il 1982 in concorso con Glauco Partel, Massimo Pugliese ed altri,  gestisse un traffico illecito di armi pesanti con la Somalia. In questo ambito Santovito e gli altri tentarono anche di commerciare ad alcuni regimi africani una tecnologia denominata “antimateria”. A tal riguardo Santovito raccontava di un finanziamento da 300 milioni di dollari da parte di alcune benche statunitensi, in favore della Banca Nazionale Somala. Tale finanziamento doveva servire, secondo l’ex direttore del SISMI, a sostenere una serie di lavori da realizzare in Somalia e costituiti da grandi opere e infrastrutture soprattutto nel campo agricolo, opere in relazione alle quali il Santovito sarebbe stato il fiduciario per conto del governo somalo, grazie ad un incarico ricevuto direttamente da Siad Barre. In tale veste il generale avrebbe dovuto curare sia la parte della progettazione che quella della realizzazione. Le ditte incaricate di eseguire i lavori sarebbero state scelte dal governo somalo. In relazione alla contropartita economia Santovito parla di una percentuale dell’importo dei lavori pari al 3%, da spartire tra lui, Pugliese e Brazzi. L’operazione in questione, la cui offerta era contenuta in una lettera che l’allora ministro somalo della programmazione Solemar aveva inviato al Santovito, doveva essere sottoposta al vaglio dell’Ufficio Italiano Cambi. Santovito, indagato per traffico internazionale di armi, dichiarava di non sapere nulla di finanziamenti statunitensi, ne tanto meno dell’esigenza di aiuti militari da parte della Somalia. A questo punto il GI Palermo mostrava all’imputato un contratto stipulato in data 17.10.82, recante le firme di Glauco Partel e del ministro delle Finanze somalo Amed Addo, e relativo alla vendita di una partita di armi pesanti per complessivi 400 milioni di dollari. Santovito dichiarava al giudice di non essere a conoscenza di quell’ operazione, ne tanto meno che questa fosse correlata alla richiesta di finanziamento da 300 milioni nei confronti delle banche statunitensi, operazione in ordine alla quale il Santovito si era invece abbondantemente speso. Il Giudice Istruttore mostrava quindi al Santovito un documento dal titolo “memorandum” trovato nella disponibilità del Pugliese. L’ex direttore del SISMi ricordava allora come, nell’aprile del 1982, un capitano della marina somalo gli avesse parlato, in linea generale, di un’ esigenza di armi da parte del suo governo. Santovito faceva presente tale esigenza al Pugliese, il quale poi la formalizzava redigendo il memorandum, senza però tenerlo aggiornato in relazione ai passaggi successivi. Tra le carte trovate in possesso del Pugliese vi era anche un documento stampato su carta intestata della Santovito, la società che faceva capo al fratello del generale, Lucio Santovito. Il generale rispondeva che era stato il Pugliese a chiedergli dei fogli di carta intestata in bianco, sui quali avrebbe dovuto scrivere una lettera a nome della società intestataria. Il giudice, dopo che l’indagato dichiarava di non avere mai partecipato alla P2, gli faceva presente come sempre tra le carte del Pugliese fosse stato rinvenuto un memorandum intitolato “memorandum sulla situazione della massoneria italiana”, dal quale risultava sia il finanziamento alla Somalia da 300 milioni di dollari, sia un’altro finanziamento in favore dello stato dello Zaire, oltre ad un ulteriore finanziamento specifico da parte della P2. Nel memorandum si faceva inoltre esplicita menzione del ruolo del Santovito in ordine agli affari in corso di realizzazione con la Somalia. La risposta che dava il Santovito era di non essere a conoscenza di quegli affari, ne tanto meno che essi riguardassero la massoneria. L’ex capo dei servizi militari dichiarava inoltre di non avere mai saputo che il Pugliese fosse massone. Il dott. Palermo mostrava allora al Santovito i documenti di intenti, datati 12 novembre 1982, tra Rossano Brazzi e Franco Pecci, quest’ultimo manager dell’Asia Zaire oltre che console onorario dello stesso paese, in relazione all’acquisto di due aeromobili Boeing 737, oltre a quattro velivoli Focher. L’ex direttore del SISMI dichiarava di non avere mai avuto rapporti con l’Aeritalia, ne tanto meno con l’Otomelara. Ammetteva come la società del fratello, la Lucio Santovito, avesse aperto una succursale in Somalia,  la quale però non risultava essere ancora operativa.
La vendita di armi all’Iran Sempre nell’interrogatorio al Santovito del 20 ottobre 1983, il GI Palermo chiedeva conto all’imputato di alcune annotazioni contenute nella sua agenda. La prima, in data 8 gennaio, riguardava “elicotteri disarmati Iran“, con accanto il riferimento al comandante Di Bartolomeo del SIOS della Marina. L’ex direttore del servizio militare rispondeva di non ricordare nulla di quella richiesta fattagli dal Comandante Di Bartolomeo. Aggiungeva inoltre di come l’Iran fosse stato in quel periodo colpito da un forte terremoto, e di come tali velivoli dovevano essere impiegati nelle operazioni di salvataggio. L’interessamento del comandante Di Bartolomei era dovuto al fatto che la richiesta proveniva direttamente da alcuni ufficiali della Marina iraniana, in buoni rapporti con i loro omologhi  italiani in quanto frequentavano in quel periodo dei corsi di addestramento a Livorno. Altra annotazione della quale il GI Palermo chiedeva conto al Santovito era quella indicata come “Petrolio Abu Dabi“. Tale nota riguardava una questione accennata a Santovito dal direttore della Otomelara Stefanini. L’ex capo del SISMI sapeva bene che la scritta 25 CRA significava 25 carri armati. Dunque il GI chiedeva all’imputato il significato della nota “25 carri armati = petrolio“, e Santovito rispondeva come probabilmente questa intendesse indicare che quei 25 carri armati dovessero essere pagati attraverso petrolio, e dunque di come si trattasse di una offerta fatta pervenire a Stefanini dall’Emirato di Abu Dabi. Tra le varie attività svolte dal SISMI vi era infatti anche il controllo sia sulle importazioni che sulle esportazioni di armi dall’Italia. Le due attività presupponevano l’intrattenimento di relazioni sia con i venditori che con gli acquirenti. I contratti di fornitura potevano prevedere, ciò rappresentava una prassi consolidata anche con la Libia per quanto riguardava le società italiane che operavano in quel paese nel campo delle infrastrutture, il pagamento del corrispettivo in petrolio.
Ancora Somalia Tra le varie annotazioni presenti nell’agenda dell’ex direttore del SISMI e relative alla Somalia ve ne era una che faceva riferimento al Tenente Colonnello Pallotta (5 febbraio Esportazione armi Pallotta”). Pallotta faceva parte del Comitato interministeriale sul controllo delle esportazioni di materiale strategico, e Santovito quando dirigeva il servizio, gli diede incarico di effettuare una statistica sulle esportazioni di armi dall’Italia. Questo in quanto in sede di riunione tra i direttori dei vari Servizi (SISMI, SID, CESIS) e i sottosegretari era emersa una mancata conoscenza in ordine alla quantità ed alla qualità degli armamenti esportati dal nostro Paese. L’esigenza in questione si presentò a seguito del sequestro di missili forniti da appartenenti a organizzazioni politiche italiane al Fronte Popolare di Liberazione della Palestina, operazione non legalmente autorizzata. Santovito raccontava di avere prestato servizio in Somalia, dal 1950 al 1953, come Comandante di compagnia, e di avere avuto in quell’occasione la possibilità di conoscere le richieste di armamenti provenienti dal governo di quel paese. Successivamente, nel 1980, tali richieste vennero rinnovate, stavolta però nei confronti del governo statunitense. Gli Stati Uniti acconsentirono a soddisfarle, si trattava di armi anti carro e contraerea, attraverso il ricorso al sur-plus dislocato nei vari paesi europei aderenti alla NATO, tra i quali anche l’Italia. E proprio una fornitura di armi americane costituiva la contestazione mossa contro Santovito e i suoi coimputati. In tale caso specifico le armi richieste, si trattava di carri armati, sarebbero state fornite attraverso il sur-plus dei paesi NATO sempre attraverso il Dipartimento di Stato americano, per il tramite dei Servizi segreti USA (CIA o NSA). Nella documentazione sequestrata al Partel risultava inoltre come i servizi americani avessero percepito un compenso in ordine all’operazione in questione. L’imputato rispondeva di avere lasciato il SISMI il 12 agosto 1981 e di non conoscere il Partel, ed aggiungeva inoltre come l’acquisto di armi da parte della Somalia non avesse nulla a che fare con l’operazione di finanziamento da lui seguita. In relazione all’ annotazione “29 aprile – Somalia- consulente tecnico” Santovito spiegava come in occasione di un colloquio con Siad Barre, presso il Grand Hotel di Roma, questi gli rappresentò “l’opportunità di poter disporre di un consulente tecnico” al fine di mettere ordine agli interventi effettuati dai vari paesi. Con riferimento a tale esigenza l’imputato citava la sua visita in Somalia del 24 settembre 1982, in compagnia dell’ing. Poduie.
Il petrolio libico Con l’ annotazione: 26 marzo “CESIS…visita Libia= petrolio“, tratta sempre dall’agenda del Santovito, questi intendeva richiamare il fatto di avere un buon rapporto di conoscenza con l’allora capo dei servizi libici Bel Kassen, in quel periodo spesso in visita a Roma per via di un ciclo di cure odontoiatriche. Il rapporto tra i capi dei servizi dei due paesi era buono al punto che il primo si spinse ad invitare il Santovito a recarsi in Libia, sia in forma privata che in veste ufficiale, in quest’ultimo caso su richiesta di Gheddafi. Sebbene tale visita avrebbe potuto propiziare forniture di petrolio libico per l’Italia, Santovito non accettò mai l’invito di Gheddafi. L’ex direttore del SISMI raccontava poi di quando si interessò alla questione del petrolio che la società Petromin doveva acquistare dai paesi arabi. Il giudice Palermo domandava quindi all’imputato della nota del 29.04.83, nella quale si parlava di una fornitura di 91.250.000 barili di petrolio grezzo all’Agip da parte della Petrofin, per il tramite della Profilau, e con la collaborazione del Colonnello Giovannone. L’ex direttore del servizio spiegava come la partita di petrolio in questione non fosse la medesima alla quale lui si interessò pesonalmente. Il giudice rappresentava all’imputato come tra le varie risultanze relative alla partita di petrolio di cui allo scandalo Petromin, vi fosse un incontro tra Licio Gelli e Bettino Craxi, in ordine allo sfruttamento dell’offerta araba particolarmente conveniente. Dato che l’imputato, come risultava dalle indagini, aveva avuto incontri sia con Craxi che con Gelli, il giudice gli chiedeva quale fosse il loro contenuto, ed eventualmente quale fosse il ruolo avuto in tale ambito dal Colonnello Giovannone. A seguito di un’inchiesta del settimanale L’Espresso, relativa al contratto petrolifero oggetto dello scandalo, venne fuori come il Colonnello Giovannone avesse percepito dalla Sofilau o dalla Petromin una tangente da 700 mila dollari, e di come tale somma gli venne versata su di un conto aperto presso una banca svizzera, conto individuato da tre sole cifre. A partire da questa notizia l’ex direttore dei servizi aprì un’inchiesta interna, con la collaborazione dei servizi svizzeri, tesa ad accertare se effettivamente vi fosse presso una banca elvetica un conto di tre cifre intestato al Giovannone. Le risultanze emerse furono che nessuna banca sul territorio svizzero adottava per i suoi conti una numerazione di quel genere. Convocato in merito a quella questione, il Giovannone negò di avere percepito alcuna tangente, riferendo di come la sua attività si fosse conclusa dopo avere messo in contatto l’Ambasciatore italiano in Gedda, dott. Solera, con un funzionario dell’ENI. A seguito di quella missione il Colonnello avrebbe lasciato Gedda con destinazione Beirut. Le risultanze dell’inchiesta vennero trasmesse alle autorità di polizia, ma dal momento che non erano emerse irregolarità la vicenda si considerò conclusa. Della questione avrebbe riferito il Sottosegretario alla presidenza del Consiglio con delega ai servizi, on. Mazzola. Santovito riferiva inoiltre al GI di non conoscere le istruzioni impartite dall’Ambasciatore Solera al governo italiano, ne tanto meno il contenuto della “nota verbale” diretta al Ministero degli Esteri saudita, di cui si faceva cenno nel promemoria.
Il ruolo dell’attore Rossano Brazzi Tra gli indagati nella vicenda del contratto di fornitura di armi pesanti alla Somalia, oltre al Partel, al Santovito ed al Pugliese, un ruolo determinante venne assunto dall’attore Rossano Brazzi. Dopo aver ricoperto ruoli di rilievo nel cinema del ventennio, Brazzi si era ricavato un’immagine di spessore nelle ricchissime produzioni hollywoodiane, accanto ad attori del calibro di Joan Crawford, Ava Gardner, Katharin Hepburn, Humphrey Bogart e John Wayne. Ed è qui che Brazzi conobbe il futuro Presidente degli Stati Uniti, Ronald Reagan. Grazie a tale incontro diverse società italiane produttrici di armi, tra cui Otomelara, Snia e Marchetti, cercheranno di ottenere i suoi servigi in qualità di consulente di public relations o di promoter. Nella vicenda delle armi alla Somalia il ruolo di Brazzi fu duplice: da una parte nell’agevolare il finanziamento da 300 milioni di dollari in favore del governo somalo, per conto delle banche statunitensi. Dall’altra nel facilitare la vendita di carri armati al governo somalo da parte del Dipartimento degli Esteri degli Stati Uniti. Tutto materiale catalogato come surplus e destinato al rinnovo nei vari Paesi europei aderenti al Patto Atlantico. Con riguardo al finanziamento americano, tra le risultanze emergeva anche come il Brazzi si fosse recato personalmente in Somalia, in compagnia del Santovito e del Pugliese. Diversamente dalle dichiarazioni rese al magistrato, nella documentazione allegata risultava una missiva indirizzata dal Brazzi al ministro della Difesa somalo, Mohamed A. Samantar. Nella lettera si faceva riferimento, anche se non esplicitamente, alla missione svolta dall’attore a Washington, tesa probabilmente ad agevolare la richiesta di finanziamenti. In essa veniva inoltre sottolineato come il “dossier fosse stato consegnato direttamente al Presidente Reagan”, amico dell’attore italiano, e di come fosse stata pianificata un’ ulteriore visita nella stessa città per verificare l’andamento della “pratica”. Dunque il ruolo di Brazzi in tale vicenda era tutt’altro che secondario, ed inoltre sebbene ciò fosse stato smentito sia dal Brazzi che dal Santovito, i finanziamenti statunitensi erano destinati al ministero della Difesa somalo, e non a quello dell’agricoltura come si era inizialmente lasciato intendere.
Trafficanti di armi in terra sarda  Dalle indagini ordinate dal GI Palermo emergeva come i soggetti indagati, i vari Glauco Partell, Sebastiano Sannio e Massimo Pugliese, costituissero un gruppo di ex militari in grado di organizzare un traffico internazionale di armi assieme a Flavio Carboni e a Vincenzo Giovannelli. Quest’ultimo in particolare sarebbe stato titolare di un’ agenzia doganale e marittima (Agenzia Marittima Trasporti e Spedizioni Merci) ad Olbia. Sannio, Partell e Pugliese si sarebbero serviti dunque di una vasta rete di informatori e mediatori costituita in prevalenza da Agenti Marittimi doganali e turistici. Sui telex delle agenzie riconducibili ai vari Giovannelli e ad altri giungevano continuamente offerte e domande di armamenti in codice. Oltre a Giovannelli la rete di informatori era composta da Ennio Fanno, titolare dell’agenzia “Sarda Mondial Viaggi” di Cagliari. Tanto il Fanno quanto il Giovannelli erano legati alla massoneria sarda vicina agli ambienti piduisti. A questi si associarono poi altri personaggi che ricoprirono ruoli altrettanto determinanti: si trattava in particolare dei vari Roberto Ruggiero,  Arnaldo Capogrossi,  Michele Jasparro Michele e Antony Tannoury. Jasparro era affiliato alla massoneria di Pavia, mentre Tannoury, libanese con precedenti in italia per traffico di stupefacenti, veniva indicato come il braccio destro di Gheddafi. E guarda caso la maggior parte delle navi che ricorrevano ai servizi dell’agenzia del Giovannelli facevano scalo in Libia. Determinante poi la conoscenza del Giovannelli con tale Otto Keller, residente a Vienna, in grado di provvedere al rifornimento di armi leggere provenienti dalla ex Cecoslovacchia o dalla Bulgaria, ed in contatto con numerosi funzionari dell’ambasciata statunitense a Roma. In una nota redatta dal 4° reparto del comando generale della GdF datata 12 aprile 1983 e diretta ai comandi di Cagliari, Roma e Milano, veniva riporta la notizia dell’appartenenza del Partel alla NSA, l’agenzia di sicurezza statunitense,  rispondendo questi a tale Mr Roger presso l’Ambasciata degli Stati Uniti a Roma. Con tale incarico Partel era stato al centro di una serie di traffici di armi e di petrolio, condotti in parte per conto terzi su indicazione della NSA, ed in parte per conto proprio. Associato al Partel era il Massimo Pugliese, iscritto alla loggia P2. Il Pugliese avrebbe concluso compravendite di armi provenienti da paesi dell’Est sulla piazza di Ginevra, in totale autonomia, ed avrebbe avuto come collaboratori un ufficiale generale e due ufficiali superiori in congedo. Da una serie di controlli effettuati dalla Guardia di Finanza, era emerso inoltre come il Partel frequentasse a Roma l’Agenzia di viaggi “Ocean Service Tour Enterprise”, in Via s.Maria Maggiore, dove si incontrava con Ivan Galileos, convivente della titolare dell’agenzia Carmela Fuccella. Attraverso l’attività intercettiva era stato possibile verificare come, tramite telex, Partel svolgesse un’intensa compravendita di armi verosimilmente straniere. Nel testo dei telex intercettati le richieste più ricorrenti riguardavano sottomarini, carri armati e bombe a mano. Il ruolo del Partel era di semplice intermediario, attraverso lo sfruttamento della rete di conoscenze strutturata mediante le agenzia doganali. I trafficanti di armi viceversa erano dislocati in Svizzera, Inghilterra, Stati Uniti e Australia. Malgrado l’intensa attività svolta il Partel non sarebbe mai riuscito a concludere alcuna fornitura. Sia il Partell che il Galileos si appoggiavano, per quanto riguardava i pagamenti, presso una banca di Londra (Kensington). Nel marzo-aprile 1982 Galileos si sarebbe recato in una città del Medio Oriente che si ritiene sia stata Bagdad. Come è noto in Iraq non è possibile ottenere il visto per fini turistici, ma è consentito l’accesso solo agli uomini d’affari. Nell’agosto del 1982 Partel e Galileos si sarebbero recati a Zurigo, Ginevra, Parigi e Londra. In Italia Partel e Galileos sarebbero stati in contatto con Vincenzo Cortegiani, tale Bertoncini, e ancora Otto di Zurigo, Bartleis di Ginevra, Hassan Ibrahim residente a Mogadiscio di professione commerciante e titolare di una catena di automezzi adibiti al trasporto di merci, Helmut di Ginevra, lo statunitense Andrew Galuska, e tale Eugin di nazionalità australiana. Quest’ultimo sarebbe stato il principale interlocutore dei due. In un appunto redatto dal 4° reparto del Comando Generale della GdF datato 13 gennaio 1983 e diretto ai Nuclei Centrali del corpo di Cagliari, Roma e Milano si segnalava la notizia proveniente da fonti estere e riguardante il Giovannelli. Le fonti avrebbero accertato una presunta disponibilità da parte del soggetto indicato e di tal Glauco Partel a cedere, dietro corrispettivo, ordigni nucleari, missili, navi da guerra, carri armati, aerei caccia e munizionamento vario. Il Giovanneli, di professione titolare di una Agenzia marittima di spedizioni, era in contatto con il Partel via telex, e gli avrebbe prospettato l’acquisto di tre fregate statunitensi del tipo “Battista”, costruite nei cantieri navali del Portogallo o della Spagna, e dismesse dalla NATO da quattro anni (cm).

Nobili: il primo whistleblower sulla P2

 Il maggiore dell’Aeronautica Militare Umberto Nobili fa parte di quei personaggi che hanno ruotato attorno alla loggia massonica coperta P2, pur non essendone formalmente iscritti, e che sono stati più o meno inconsapevolmente da questa usati per finalità illegali ed anticostituzionali.

Nobili ha pero’ un merito indiscutibile, essendo stato il primo a tentare di denunciare le malefatte e i traffici di Licio Gelli e dei suoi sodali.

L’intreccio delle vicende che lo riguardano e’ connotato da una fitta rete di relazioni condizionate da trame segrete e da doppi giochi, nel classico stile del romanzo di spie ambientato nel periodo della guerra fredda.

Durante le indagini relative alla strage di Ustica Nobili lavorava a Roma presso il SIOS dello Stato Maggiore dell’Aeronautica. In tale posizione eseguì una serie di indagini sull’incidente di volo in questione. Nobili indagò anche su quello relativo al MIG 23 libico, caduto sempre nel 1980 sui monti della Sila. Contemporaneamente, per motivi istituzionali, Nobilli intrattenne fitti scambi informativi con l’allora Capo Centro del SISMI di Firenze, il tenente colonnello Federico Mannucci Benincasa.

Benincasa riferiva poi al direttore del SISMI, generale Giuseppe Santovito, il quale riportava a sua volta a Licio Gelli. Il 21 dicembre 1987 Nobili deposita presso la cancelleria della procura di Firenze un esposto relativo al coinvolgimento di Gelli in una serie di vicende di rilevanza penale.

La scelta del Nobili di denunciare, seppure in ritardo, il coinvolgimento del Venerabile in una serie di crimini era dovuta ad un suo mutamento di opinione nei confronti dell’allora sostituto procuratore di Firenze Pierluigi Vigna, in precedenza ritenuto vicino agli ambienti piduisti.

Il cambio di prospettiva da parte dell’ufficiale era legato al fatto che il dott. Vigna aveva da poco condannato Gelli per i suoi legami finanziari con lo stragismo nero in Toscana, in particolare con Augusto Cauchi (Cauchi era,  tra le altre cose, un informatore di Mannucci Benincasa) .

In questa vicenda Nobili assume il ruolo di vittima inconsapevole, legato al Benincasa da un rapporto di falsa amicizia, che vedeva coinvolte anche le rispettive famiglie.

Benincasa circuisce Nobili, facendogli credere di raccogliere prove contro Gelli, mentre in realtà era uno dei suoi più fedeli servitori. Così come il giornalista Marcello Coppetti, in predicato di sostituire Mino Pecorelli alla guida del settimanale OP. (Nobili e Banincasa ipotizzarono anche un coinvolgimento diretto di Gelli nella morte di Pecorelli).

Dopo il disastro di Ustica e a seguito della strage alla stazione di Bologna Nobili decideva, d’accordo con Benincasa, di denunciare in maniera anonima le malefatte di Gelli. Il primo tentativo avverrà attraverso una telefonata all’allora capo della procura di Roma, Giovanni Di Matteo. Un secondo tentativo si realizzerà per via postale, sempre in forma anonima, con un plico diretto sempre a Di Matteo.

Nè Nobili nè Benincasa sapevano però, anche se il sospetto dei presunti legami di Vigna con la P2 sembrerebbe provenire dagli stessi ambienti piduisti, che De Matteo era ottimo amico di Aldo Semerari, tanto da essere spesso invitato nella villa che il criminologo aveva a Poggio Mirteto.

Semerari, piduista, esperto di criminologia e ordinario di psichiatria forense, era uno dei principali periti della procura capitolina, oltre ad essere assieme al docente di storia ed esponente della destra filo islamica Claudio Mutti, ed al professore di filosofia Paolo Signorelli, tra i promotori della ricostituzione segreta del disciolto Ordine Nuovo.

Fra i primi a scoprire tale tentativo di ricostituzione vi fu il sostituto procuratore Mario Amato, grazie ad un rapporto dei servizi che ipotizzava la creazione di un fronte unico tra le varie organizzazioni della galassia della destra eversiva, attive in Italia negli anni ’80. Il rapporto dei servizi verrà insabbiato nei cassetti della procura romana a seguito dell’omicidio del magistrato ad opera dei NAR. Verrà ripreso solo nel 1981, dalla procura di Bologna, durante la fase istruttoria del processo per la strage alla stazione.

Lo stragismo in Toscana

Dalla lettura degli atti giudiziari e dalle rivendicazioni effettuate telefonicamente o attraverso volantini è stato possibile ricostruire come quattro delle stragi fasciste avvenute nel corso degli anni ’80 siano state effettuate in corrispondenza di scadenze precise.

Il primo riferimento è alla strage di Bologna, del 2 agosto1980, che secondo le risultanze delle indagini doveva essere un atto dimostrativo per ricordare la strage dell’Italicus del 4 agosto 1974.

L’esplosione dell’ordigno nella sala d’aspetto della stazione del capoluogo emiliano avvenne due giorni prima rispetto alla ricorrenza fissata, solo perché i responsabili ritennero che di sabato la stazione sarebbe stata popolata da molta più gente, che non il lunedì seguente. Inoltre, il giorno precedente a quel due agosto era stata depositata l’istruttoria che riconosceva Mario Tuti quale responsabile, assieme ad altri, di una serie di attentati avvenuti sulla tratta ferroviaria Roma-Firenze, tra gli anni’ 70 e i primi anni ’80.

Il 23 dicembre 1984 è stata la volta della strage del treno Taranto-Milano “904”, anche nota come la strage di Natale. Quella bomba seguiva l’ordine di arresto ai danni del faccendiere Francesco Pazienza, coinvolto nel depistaggio relativo alle indagini sulla strage alla Stazione di Bologna.

Il 3 agosto 1985 una bomba esplode all’interno dell’ufficio Postale di via Carlo d’Angiò, sempre a Firenze. La responsabilità di quest’ attentato, ma anche di tutta una serie di altri attentati avvenuti sempre in Toscana, verrà attribuita ad Augusto Cauchi.

Il 5 novembre 1987, alle ore 5:33 del mattino, una bomba esplode a Firenze, fortunatamente senza provocare vittime, all’interno di uno stabile in via Toscanini. L’esplosivo utilizzato, Pentrite con T4 e TNT,  era lo stesso impiegato sia per il treno “904” che per l’ordigno fatto esplodere nell’Ufficio Postale di via d’Angiò. In effetti quella bomba, quella di via Toscanini, era stata posta a due giorni di distanza dal deposito dell’istruttoria relativa al primo dei due attentati.

L’ordigno dello stabile di via Toscanini non venne mai rivendicato. Tuttavia le indagini hanno permesso di formulare delle ipotesi. Una in particolare, secondo la quale quell’esplosione rappresentava un test. Una prova generale che non provocò vittime solo per una fortuita coincidenza, quella che permise a quello stabile di resistere e di non implodere su se stesso.

Il 16 dicembre 1987 la corte d’assise di Firenze ha condannato a 16 anni l’aretino Augusto Cauchi, a 14 e 15 anni rispettivamente Alessandro Danialetti e Fabrizio Zani, e ad 8 anni il pentito Andrea Brogi. E poi ancora Marco Affatigato è stato condannato a 7 anni, Mauro Tomei a 5 anni, Giovanni Rossi a 6 anni e mezzo, Claudio Pera a 2 anni e mezzo, Massimo Batani a 5 anni e mezzo, Piero Talentacci a 5 anni e mezzo.

Il processo è riuscito a dimostrare che nella primavera del 1974 Licio Gelli aveva concesso un finanziamento di una ventina di milioni a Cauchi, con quest’ultimo ritenuto il coordinatore delle cellule eversive che operavano in Toscana. Cauchi è rimasto latitante per circa dieci anni. Gelli scelse il gruppo di Cauchi perché collegato ad altri gruppi che puntavano, secondo le risultanze processuali, a realizzare un golpe.

Massoneria e destra eversiva

Nato a Roma il 24 gennaio del 1937, agli inizi degli anni ’60 Nobili ricopre a Grosseto l’incarico di addetto all’ufficio “I”, con mansioni legate all’attività informativa presso il 4° Stormo dell’Aeronautica Militare. In questo periodo l’ufficiale apprende da alcune fonti l’intenzione da parte dell’estrema destra grossetana di porre in essere una serie di azioni tese a sovvertire l’ordine costituzionale, sovvertimento definito dagli eversori “risanamento delle istituzioni”, e teso ad ottenere l’instaurazione di un regime autoritario.

Nobili decide di svolgere personalmente alcune indagini all’interno del suo ambiente militare, e dopo un iniziale tentativo di avvicinamento nei confronti di alcuni commilitoni, tentativo peraltro fallito, l’ufficiale sente parlare per la prima volta di “oscuri” collegamenti con la massoneria.

Saltano così fuori i primi nomi, che non sono pero’ quelli dei militari suoi colleghi, bensì di personaggi che per questioni professionali hanno contatti frequenti con alti ufficiali dell’Aeronautica Militare.

Come Renzo Bini, che gestiva una mensa per i marinai libici delle corvette prodotte dai cantieri italiani di La Spezia, e vendute al regime di Gheddafi. Marinai addestrati in Italia  da societa’ italiane.  O come Franco Geminiani, o Dante Ciabatti, zio della scrittrice. Quest’ultimo sarà coinvolto, nel 1970, assieme ad altri nel Golpe Borghese. Nobili sceglie di non denunciare alle autorità quello che scopre, per poter continuare a monitorare quei personaggi, nella speranza di raccogliere ulteriori prove contro di loro e di Gelli.

Nell’estate del 1969 Nobili incontra a Lerici un suo lontano parente, Giuseppe Ghezzi, il quale gli propone di entrare a far parte di una loggia massonica. Ghezzi presenta a Nobili anche un personaggio importate nell’ambito della massoneria Ligure, tale Renzo Bini, proprietario dell’Hotel Byron. Tutti i personaggi in questione, oltre ad essere iscritti a diverse logge massoniche, avevano in comune la condivisione di idee politiche di estrema destra.

Sul legame tra destra e massoneria Nobili cita anche un altro episodio, quello relativo all’incontro con un capitano dell’AM, il quale gli confida di non essere riuscito a fare carriera e di essersi fermato da diverso tempo al grado di Capitano. L’ufficiale, avendo già manifestato al Nobili le sue idee di estrema destra, riteneva di poter salire ulteriormente di grado solo iscrivendosi alla massoneria.

Il Nobili, per come conosceva quel mondo, reputava tali convincimenti assolutamente sbagliati  poiché, a quanto gli era dato sapere, massoneria ed estrema destre erano mondi profondamente antitetici. Il capitano gli spiegava allora che molte cose erano cambiate da quando effettivamente vigeva tale regola, e che ormai era consentito di entrare nella massoneria anche a chi manifestava e professava idee di destra.

Dietro l’insistenza del Bini, nel novembre del 1971, Nobili aderirà alla loggia “Ombrone” di Grosseto. Qualche mese prima, nel maggio del 1971, Nobili incontra il Generale Egisto Andalò, capo del SIOS – AM, il quale gli propone di entrare a far parte della sua organizzazzione.

Dopo aver dato il suo assenso, nel luglio del 1971 Nobili, allora capitano, viene trasferito al SIOS dello Stato Maggiore di Roma, con l’incarico a partire dal mese di settembre ’71, di Capo Centro. Si tratta di un incarico di grosso prestigio, in precedenza ricoperto dal Colonnello Gino Calò.

Il traffico di piattaforme

Agli inizi del 1972, nel periodo in cui fu Capo Centro, Nobili riceve un plico contenente una denuncia in forma anonima, relativa ad un presunto traffico illecito di piattaforme inerziali.

Si trattava di piattaforme predisposte per il velivolo caccia F104, e la cui funzione era quella di assorbire elettronicamente i comandi del velivolo in fase di manutenzione. Il traffico si basava sulla messa fuori uso di tali piattaforme e nella conseguente loro svendita a prezzo di rottame ad una ditta di Pomezia, la Litton spa. Quest’ultima, una volta rilevate le piattaforme, le spediva ad una società svizzera che dopo averle rimesse in opera le restituiva alla Litton.

La Litton, poi, le rivendeva come nuove all’Aeronautica Militare ad un prezzo di acquisto di 600 milioni di lire ciascuna. Nella denuncia anonima si consigliava il destinatario, ovvero il SIOS di Roma, di contattare il Raggruppamento Centro CS di Roma, allora parte del servizio segreto militare SID, essendo questo coordinato dal Reparto “D”.

Quando Nobili contatta il Centro CS di Roma, nella persona del suo coordinatore il Ten.Col. Giorgio Genovesi, questi gli domanda se aveva effettuato le opportune verifiche circa l’esistenza di quel supposto traffico. Nobili gli risponde di avere ricevuto l’incarico dalla direzione del SIOS.

Genovesi confida al Nobili che quel traffico costituiva un’attività delicata, molto rischiosa, al punto da compromettere in maniera irreparabile la sua carriera, e decide così di chiamare in causa il suo superiore, il Colonnello Federico Marzollo. A quel punto Genovesi chiede al Nobili se conosceva la rivista OP, diretta dal giornalista Mino Pecorelli, e Nobili gli risponde di no.

Prima di protocollare la denuncia il Colonnello Marzollo fa presente al Nobili che quell’istanza avrebbe richiesto tempi molto lunghi, legati alla necessità di effettuare i dovuti riscontri, ma che comunque l’avrebbe messa agli atti. Quella denuncia verrà di fatto insabbiata.

Il finanziamento delle attività eversive

Sempre sulla denuncia del traffico di piattaforme, da ambienti CS non romani Nobili viene a sapere come quell’attività illecita serviva a creare un ingente gettito di risorse economiche, destinate a finanziare alcune attività eversive, tra cui anche azioni terroristiche, oltre che a corrispondere le  tangenti necessarie ad assicurare la complicità di alcuni alti funzionari.

Tutte le attività finora descritte venivano pianificate su scala più generale all’interno della loggia P2. La Litton spa era allora un fornitore accreditato delle Forze Armate Italiane, con l’incarico di svolgere lavori classificati le cui caratteristiche erano coperte dal segreto militare.

Nobili si confronta ripetutamente con il responsabile della sicurezza della Litton, tale Barbieri, in ordine all’osservanza delle procedure di sicurezza. Procedure in ordine alle quali il Barbieri e la Litton si mostravano, malgrado i ripetuti richiami, sempre in difetto.

Ma sia il Barbieri che la Litton non davano molto peso agli avvertimenti, ed anzi una volta avevano anche cercato di addomesticare i controlli del Nobili mandandogli a casa un regalo. Nel settembre del 1973, a seguito di una formale ispezione alla Litton, Nobili viene a sapere dal suo sottoposto, Maresciallo Donnarumma, di come il segretario del Colonnello Marzollo, Capitano Mario Venturi, si fosse informato circa un suo eventuale gradimento nell’ entrare a far parte del servizio militare SID.

Nel 1972 a Nobili viene offerto di aderire alla loggia massonica coperta P2, nella quale erano iscritti alti ufficiali, burocrati e politici. In quel frangente a Nobili viene sconsigliato di dire di essere già iscritto alla massoneria. Secondo le risultanze successive emergerà come in quel periodo fossero iscritti a tale loggia coperta diversi personaggi provenienti dal mondo della destra, tra cui anche alcuni iscritti all’MSI, oltre ad ex Repubblichini.

Nobili e’ molto tentato da quell’offerta, anche perchè in tal modo poteva ottenere direttamente numerose informazioni su Gelli e le attività illecite da questi portate a termine. In quel periodo Nobili riceve l’incarico di seguire la stampa, tra cui anche il settimanale OP. Dalla lettura di tale pubblicazione Nobili ha l’impressione di come questa avesse in prevalenza finalità ricattatorie e di minaccia, e che inoltre tutte le informazioni in essa riportate provenissero da fonti interne ai servizi segreti.

Quell’appartamento all’EUR

Nel 1974, nell’ambito di un’indagine condotta sul conto del capitano dell’AM Cirami, attività tesa ad effettuare alcune verifiche sulla la vita privata dell’ufficiale, il SIOS dell’Aeronautica scopre come questi fosse solito frequentare un appartamento situato a Roma, nel quartiere EUR, al pianterreno di uno stabile. Quel locale veniva utilizzato come punto di ritrovo da personaggi legati alla malavita romana.

L’immobile in questione risultava abitato da tal Vigorito, che a seguito di indagini risultava avere precedenti penali. Il Vigorito era a sua volta collegato con tal Mazzola, personaggio di spicco della criminalità romana. Accanto alla targhetta Vigorito, sulla porta di ingresso di quell’appartamento, veniva riportata anche l’indicazione di Massoneria Universale. Il capitano Cirami era dunque legato ad ambienti massonici.

Chiedendo al gruppo dei massoni grossetani, ai quali era collegato, Nobili viene a sapere come sia l’appartamento che le persone che lo frequentavano risultavano essere legate al generale Ghinazzi.

Il Commiliter alle elezioni

Nel 1972 Nobili viene contattato per un incontro dal comandante del Centro di Addestramento di Vigna di Valle, l’ufficiale Franco Papò. Durante l’incontro Papò, notoriamente uomo di destra,  riferisce al Nobili a proposito di un commerciante di oli alimentari che era solito rifornire le Forze Armate, e che lo aveva invitato a incontrare alcuni personaggi del Commiliter, in vista della costituzione di una sorta di aggregazione politica di estrema destra, composta in prevalenza da ufficiali.

Il venditore di olii, oltre ad avergli lasciato un ciclostilo firmato da Junio Valerio Borghese, gli aveva accennato alla necessità di salvare l’Italia cercando di impedire che cadesse in mano ai governi delle sinistre.

A seguito di accertamenti risultò che il commerciante in questione si chiamava Cannone Delmano, nato a Terranova Bracciolini nel 1920, la cui madre faceva Gori di cognome. Da ulteriori indagini emerse come questi fosse imparentato con Licio Gelli, la cui madre si chiamava anche lei Gori, così come la madre del Cannone.

Quest’ultimo risultava inoltre avere precedenti penali, oltre ad essere iscritto all’MSI. Dall’esame dei registri del Commiliter risultò come il Cannone fosse solito incontrare il generale Riccio, in seguito arrestato per fatti legati all’eversione nera. (cm)

Mattei e Pasolini, l’ombra dell’intrigo

il 27 ottobre 1962 un jet biposto Morane-Saulnier precipita in località Bascapè, nella provincia pavese. In quell’aereo, guidato dal fido Irnero Bertuzzi, viaggiava il presidente dell’ENI, Enrico Mattei.

Le indagini guidate dal pm Edgardo Santachiara terminano il 31 marzo 1966 con un “non luogo a procedere”. Le conclusioni alle quali giunge il magistrato sono quelle dell’incidente dovuto ad un errore del pilota. Una seconda inchiesta, aperta il 20 settembre del 1994 sulla base di nuovi elementi, si conclude il 20 febbraio 2003 con una richiesta di archiviazione. Il ritrovamento di alcuni resti del velivolo, avvenuto nel 1997, porta alla conclusione che l’aereo è esploso a causa di un ordigno.

L’inchiesta della magistratura riesce dunque a provare l’esplosione, ma non a scoprire chi e perchè aveva piazzato l’esplosivo.

Quest’ultima indagine viene condotta dal sostituto procuratore Vincenzo Calia che, dopo avere riaperto il caso sulla base di nuovi elementi, comincia a leggere il libro Petrolio di Pier Paolo Pasolini. Il testo, uscito nel 1992, diciassette anni dopo la morte del suo autore, è l’opera alla quale il poeta friulano stava lavorando quando viene ucciso all’Idroscalo di Ostia, il 2 novembre 1975. Conservato prima della sua pubblicazione in due cartelle depositate presso l’Archivio Bonsanti del Gabinetto di Vieusseux di Firenze, il lavoro consiste in una serie di fogli in parte dattiloscritti ed in parte vergati a mano. La seconda delle due cartelle contiene invece una serie di articoli di giornale del settembre del 1973, tra i quali il testo del discorso tenuto dall’ex presidente della Montedison e prima ancora dell’Eni, Eugenio Cefis, presso l’Accademia Militare di Modena, oltre alle fotocopie del libro “Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente”, pubblicato da Ami nel 1972. Quest’ultimo è la fonte principale del lavoro di Pasolini. Ed è lo stesso Calia ad accorgersene quando ne entra in possesso: da un’attenta lettura il magistrato si rende conto di come tutte le informazioni relative al personaggio principale di Petrolio sono state tratte da Cefis, ed anzi che Carlo Troya è Cefis, mentre Enrico Boncore è Mattei.

Nella terza istruttoria che Calia aprirà nel 1994 e che si concluderà nel 2002, il pm pavese cercherà per l’ultima volta di dimostrare chi è perchè mise l’esplosivo all’interno del Morane-Saulnier del presidente dell’ENI.


Mattei l’ENI e la mafia

La morte di Mattei e di Pasolini non sono le uniche che apparentemente sembrano avere un collegamento tra loro. Il 16 settembre 1970 viene rapito a Palermo il cronista di mafia de “l’Ora” Mauro De Mauro.

De Mauro è stato incaricato dal regista Francesco Rosi, che intende girare un film su Mattei, di ricostruire gli ultimi due giorni di vita del presidente dell’ENI. L’ente di Stato dei petroli, grazie ad una montagna di soldi pubblici, si parla di 2000 miliardi affluiti da Roma fino agli inizi degli anni ’80, ha scoperto importanti giacimenti di petrolio a largo del piccolo paese siciliano di Gela, sulla costa meridionale dell’isola, ed ha così deciso di investire in quei luoghi, creando dal nulla un importante centro petrolchimico. Memorabile è il comizio che Mattei tiene a Gagliano di Castel Ferrato, il giorno prima dell’incidente; nel discorso, enfatizzato anche da Rosi nel suo film, il presidente dell’ENI preannuncia la nascita del polo industriale come una grande opportunità di riscatto della popolazione dalla povertà e dalla dipendenza dal petrolio straniero.

Quello che accadrà, di li a qualche anno, sarà invece che le famiglie mafiose gelesi legate a Piddu Madonia, ai Jannì, ai Cavallo ed ai Jocolano si ingrasseranno con i soldi pubblici, a partire dalle speculazioni sui terreni intorno al petrolchimico, che da un giorno all’altro diventano una miniera d’oro. Tutta Gela è costruita abusivamente, ed ancora oggi è il più grande paese d’ Europa frutto dell’abusivismo edilizio. E poi c’erano anche i trasporti; nel solco della tradizione, tutto il trasporto da e per il petrolchimico sarà gestito in monopolio dalla famiglia Jocolano.

Ma, nonostante il fiume di denaro pubblico drenato illegalmente, le famiglie non riescono a distinguere nella figura di Mattei quella del benefattore.

Secondo la deposizione resa dal boss Tommaso Buscetta nell’interrogatorio del  29 aprile 1994, Mattei viene ucciso da Cosa nostra americana per via della sua politica petrolifera ritenuta lesiva degli interessi americani in Medio Oriente. “A muovere le fila – racconta Don Masino – erano molto probabilmente le compagnie petrolifere, ma ciò non risultò a noialtri direttamente, in quanto arrivò Angelo Bruno, della famiglia di Filadelfia, e ci chiese questo favore a nome della Commissione degli Stati Uniti“. Secondo Buscetta, dunque, l’ordine di fare fuori Mattei viene dagli Stati Uniti, e ad occuparsene, facendo in modo che sembri “un incidente”, è Salvatore Greco detto “Cicchiteddu”, d’accordo con il vertice di Cosa nostra italiana, Stefano Bontate.

Il contatto con Mattei – racconta ancora Buscetta – fu stabilito da Graziano Verzotto, un uomo di potere che rappresentava l’ENI in Sicilia“. Secondo Buscetta Verzotto, pur essendo legato al  boss Giuseppe Di Cristina, non è informato del progetto di eliminazione di Mattei. Dunque Verzotto, amico di Mattei, viene usato per invitare il Presidente dell’ENI ad una battuta di caccia, il suo passatempo preferito. Durante la battuta, gli uomini di Greco manomettono i comandi dal velivolo, così da far sembrare la morte di Mattei, un incidente.

Anche il pentito Gaetano Ianni riferisce all’ Autorità Giudiziaria, in un verbale di interrogatorio datato 27 luglio 1993, che l’eliminazione di Mattei viene decisa dagli americani e quindi trasmessa a Cosa nostra in Sicilia: “Il centro di Cosa nostra, cioè Palermo – racconta Ianni – incaricò per l’eliminazione  Giuseppe Di Cristina il quale con la sua famiglia fece in modo che sull’aereo sul quale viaggiò Mattei venisse collocata una bomba“.

Di analogo tenore sono le dichiarazioni rese da un altro pentito, Salvatore Riggio, il quale in un verbale di interrogatorio datato 15 luglio 1996 dichiara che “Nella famiglia di Riesi  si parlava di una bomba messa sull’aereo“.


 Cefis e la pista interna

Di diverso avviso è il sostituto è il procuratore paveseVincenzo Calia, che ha indagato nella seconda e nella terza inchiesta. Per Calia la morte di Mattei fu il risultato di un complotto “orchestrato con la copertura degli organi di sicurezza dello Stato e poi occultato in un intreccio di omertà e depistaggi pronti a ricompattarsi ogni volta che, nella storia del Paese, qualcuno minaccia di rivelarne il segreto“.

Analoga è la conclusione a cui conducono le dichiarazioni rese da Graziano Verzotto, interrogato a Pavia da Calia, il 4 settembre 1998. Secondo Verzotto “il sabotaggio del Morane Saulnier si spiegava con una pista esclusivamente italiana. Tale pista, secondo De Mauro, portava direttamente ad Eugenio Cefis e a Vito Guarrasi”. Guarrasi è un avvocato e imprenditore di Palermo, secondo molti legato alla mafia, membro del cda della società anonima “l’Ora”, il giornale per cui lavorava De Mauro.

Anche le dichiarazioni rese al giudice Calia dalla figlia di De Mauro, Junia, riconducono alla pista interna. ” Sono in grado di affermare con sicurezza – dichiara Junia De Mauroche mio padre addossava precise responsabilità per la morte di Mattei all’attuale presidente dell’ENI Eugenio Cefis“.

E’ lo stesso Verzotto a raccontare a De Mauro, nell’estate del 1970 poco prima del suo rapimento, alcuni particolari sulla vicenda Mattei, ed in particolare sul coinvolgimento di Cefis e di Guarrasi.

De Mauro poi si confiderà con l’amico giornalista Igor Man raccontandogli: “Sto ricostruendo il caso Mattei  e ti debbo dire che c’è d’entro, ci sono dentro tutti: i politici, gli stranieri, la Cia e, ahimè, pure la mafia“.

E’ stato detto da più parti come la sparizione di De Mauro sia legata alla scoperta da parte di questo del golpe Borghese, al quale avrebbe partecipato anche Luciano Liggio. Sappiamo per certo che De Mauro, ex aderente alla Repubblica di Salò, aveva mantenuto collegamenti diretti con il principe nero Julio Valerio Borghese, in onore del quale aveva chiamato sua figlia Junia. Sappiamo inoltre a proposito di questo colpo di stato che i suoi principali promotori, gli ufficiali Gavino Matta e Giovanni Ghinazzi, erano iscritti alla Loggia coperta denominata “Comunione di Piazza del Gesù”; e sappiamo anche che Licio Gelli aveva svolto un’ incessante attività di cooptazione in favore della Loggia P2, tanto che al momento del golpe vi risultarono iscritti circa 400 ufficiali; sappiamo infine che, secondo le risultanze della Commissione Anselmi, fu proprio Gelli ad impartire l’ordine di abbandonare l’iniziativa, dopo un confronto interno che vide prevalere i golpisti favorevoli ad una svolta presidenziale di tipo istituzionale. A seguito della scoperta del golpe e dell’apertura della relativa inchiesta giudiziaria, la loggia P2 di Gelli interrompe tutte le attività, per poi riprenderle attivamente a partire dal 1976.


   

L’ENI e la rete “Stay Behind”

David Grieco nel libro intitolato “La macchinazione: Pasolini, la verità sulla sua morte” sottolinea come lo scenario della guerra di resistenza rivesta un ruolo determinante nella vicenda di Mattei.

Grieco fa notare come Cefis e Pasolini siano entrambe friulani, ed in particolare come il poeta conosca bene i retroscena delle faide interne alle varie brigate partigiane, avendo egli perso un fratello in una di queste. Si da il caso, scrive Grieco, che Mattei, Cefis e Verzotto militassero nella stessa brigata, e che inoltre molti partigiani vennero infiltrati dall’OSS e dai Servizi segreti inglesi per vigilare e tentare di “gestire” l’andamento delle vicende politiche italiane, cercando soprattutto di impedire che l’Italia finisse nell’orbita di influenza dell’ex Unione Sovietica. Sono i prodromi di quella rete che prenderà il nome di Stay Behind, e che verrà ufficialmente creata con l’adesione del Paese alla Nato.

Come le vicende italiane hanno potuto mostrare, la rete Gladio è stata responsabile di molte delle stragi e degli attentati che si sono verificati dal dopoguerra fino agli anni più recenti, incluso il rapimento di Aldo Moro. Ufficialmente Gladio viene smantellata nel dicembre del 1972, con i carabinieri che rintracciano 127 dei 139 depositi clandestini di armi.

A questo riguardo in un comizio tenutosi a La Spezia il 5 dicembre 1972, il segretario della Democrazia Cristiana Arnaldo Forlani dichiara: “E’ stato operato il tentativo forse più pericoloso che la destra reazionaria abbia mai tentato e portato avanti [..] con una trama che aveva radici organizzative e finanziarie consistenti, che ha trovato la solidarietà probabilmente non soltanto in ordine interno ma anche in ordine internazionale. Questo tentativo non è finito. Noi sappiamo in modo documentato che questo tentativo è ancora in corso“.

Nel dicembre del 1975 il direttore uscente della CIA, William Colby racconta alla commissione d’inchiesta del Congresso statunitense, che la sua organizzazione aveva finanziato la DC e tutti gli altri partiti di maggioranza versando complessivamente 65 milioni di dollari, e tutto per impedire ai partiti di sinistra di andare al governo. Qualche anno più tardi il successore di Colby, George Bush senior, ammette di avere organizzato operazioni segrete per influenzare gli avvenimento politici italiani, e non solo sul piano elettorale. Egli dichiara inoltre che la sua organizzazione sarebbe stata pronta ad organizzarne di nuovi, qualora se ne fosse resa la necessità, per rispondere alle esigenze di sicurezza degli Stati Uniti.


La politica energetica di Mattei

Secondo Grieco l’attentato all’aereo di Mattei è stato voluto dai Servizi americani e francesi, nell’ambito di un rinnovato rapporto tra Servizi americani e Cosa nostra, che era stato alla base del successo dello sbarco alleato in Sicilia. Le ragioni dell’eliminazione del presidente dell’ENI vanno individuate nella politica di approvvigionamento energetico che l’ente nazionale idrocarburi stava portando avanti,  basato su di una relazione diretta con alcuni paesi produttori di petrolio, autonomi dagli interessi del blocco che si riconosceva nelle gradi imprese statunitensi, ed in particolare con la Libia e l’Algeria. Mattei intendeva scavalcare il cartello petrolifero creato dalle grandi compagnie statunitensi, le famigerate “sette sorelle”, cartello che permetteva agli ex “alleati”, Inghilterra, Stati Uniti e Francia, di controllare in maniera incontrastata il mercato petrolifero, imponendo a tutte le altre nazioni prezzi e quantità, attraverso il controllo geopolitico della maggioranza dei paesi produttori. Mattei cerca a suo modo di spezzare questa catena, in parte rifornendosi in paesi estranei a quest’accordo, ed in parte soddisfacendo la domanda energetica interna attraverso la scoperta di alcuni giacimenti in Italia, sia di gas naturale che di petrolio, tra cui il famosissimo Supercortemaggiore.

Ancora oggi non sappiamo con certezza quale sia stato il ruolo preciso dei due ex commilitoni di Mattei, Cefis e Verzotto, in tutta questa macchinazione.

Quel che sappiamo è che dopo la scomparsa di Mattei, Verzotto comincia una carriera professionale fulminante, che lo porta in breve tempo ad essere eletto in Senato e a ricoprire la carica di presidente dell’Ente minerario siciliano, oltre che quella di segretario della DC nell’isola, con l’incarico anche di gestire i rapporti non solo elettorali con Cosa nostra.

Anche Cefis avrà una carriera fulminante: dopo le dimissioni dall’ENI avvenute dieci mesi prima dell’attentato (secondo alcune fonti sarebbe stato Mattei a cacciare Cefis quando si accorse dei suoi legami con la CIA) nel gennaio del 1962, il presidente del consiglio Amintore Fanfani, che diverrà il suo protettore politico, lo chiamerà, pochi giorni dopo la scomparsa di Mattei, a ricondurre le sorti dell’ente petrolifero nazionale nell’alveo degli interessi statunitensi, abbandonando quella vagheggiata autonomia, a lungo inseguita dal suo predecessore.


Corruzione malgoverno e mafia

Gli anni che seguiranno saranno caratterizzati da un sempre maggiore peso della corruzione nella politica e nell’economia, e da un crescente peso di Cosa nostra nella politica e nella contribuzione del PIL non ufficiale.

Nel 1991 il settimanale Il Mondo ha censito seicento cosche mafiose tra Sicilia, Campania e Calabria, in grado di produrre un fatturato di cinquemila miliardi, pari quasi a quello del gruppo FIAT. Altri settecento erano invece attribuiti più in generale all’industria del crimine. Quando prima l’Alto Commissario per la lotta alla Mafia Domenico Sica e quindi il capo della Polizia Vincenzo Parisi raccontano al Paese tramite i mezzi di informazione che una parte del sud è fuori dal controllo dello Stato, finalmente viene squarciato quel velo di ipocrisia e di moralismo che aveva fino a quel momento considerato i “piccioli” della mafia, puliti e reinvestiti nell’economia legale, una cosa buona per l’economia, lo sviluppo e l’occupazione.

Qualche anno prima sia Verzotto che Cefis erano usciti di scena, in maniera non proprio edificante.

Nel gennaio del 1975 a seguito dello scandalo dei fondi neri dell’Ente minerario siciliano detenuti presso le banche svizzere di Michele Sindona, Gaetano Verzotto fugge prima a Parigi e poi in Libano, inseguito da un mandato di cattura.

Due anni più tardi Eugenio Cefis si dimette, a soli cinquantasei anni, da tutti gli incarichi ricoperti e si trasferisce in Svizzera, con un tesoro di “risparmi” stimato in cento miliardi di lire. Questo personaggio tanto potente quanto oscuro, lascerà un vuoto tanto evidente quanto inaspettato, da sollevare numerosi interrogativi. A questo proposito il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia, persona molto misurata nei modi e famoso per i suoi silenzi più che per le sue esternazioni dirà a Cefis: “Che fa? Se ne va? Ma lei non era quello che doveva fare il colpo di Stato?“.

Come il suo ex commilitone Verzotto, Cefis abbandona in fretta e furia il Paese, temendo di essere arrestato. Sullo sfondo, come vagheggiato da Cuccia, l’ombra di un colpo di Stato.


La fuga di Cefis ed il supposto golpe

La vicenda viene raccontata dal broker di borsa Aldo Ravelli a Fabio Tamburini, in un’ intervista riportata nel libro “I misteri d’Italia”, uscito 1996.

Tamburini domanda a Ravelli perché Cefis scappò dall’Italia, e Ravelli conferma che l’ex presidente della Montedison stava per essere arrestato. Tamburini domanda se Cefis “coltivasse sogni autoritari” ma Ravelli non risponde, lasciando però intuire come le cose stessero proprio in questi termini.

A questo punto Tamburini chiede al broker da chi fosse organizzato il supposto golpe, e Ravelli risponde da ufficiali e generali dell’esercito e dai carabinieri. Ravelli poi racconta di essere a conoscenza della vicenda in quanto sarebbe stata a lui riferita da un suo amico in essa coinvolto.

Cosa accadde poi, domanda il giornalista, e Ravelli risponde che il golpe fallì grazie all’intervento di una persona: Gianni Agnelli, nemico di Cefis.

Ed è proprio il magistrato Vincenzo Calia, verso la voce degli anni ’90, a scoprire, attraverso alcuni documenti del SISMI, come dietro la P2 ci fosse proprio Cefis, il quale ha gestito la super Loggia fino a quando ha  ricoperto la carica di presidente della Montedison. Una volta dimessosi da tale carica per timore di essere arrestato, il suo ruolo all’interno della P2 viene assunto dal duo Gelli – Ortolani. La notizia era stata verificata dal SISMI attraverso fonti statunitensi.

E’ possibile che Pasolini sia stato ucciso perché aveva scoperto il golpe di Cefis, e avere dunque smascherato, per usare l’espressione del titolo del libro inchiesta su Cefis, l’altro volto dell’onorato presidente?

Quello che sappiamo per certo è che Giovanni De Lorenzo, capo del Sifar e artefice del golpe denominato “Piano solo”, era iscritto alla Loggia coperta Giustizia e Libertà, facente capo all’ordine di piazza del Gesù. Sappiamo anche che nel 1961 Cefis, prima di essere chiamato da Fanfani a dirigere l’ENI, dopo la morte di Mattei, si iscrive nella stessa loggia di De Lorenzo, e che tale cosa, pur non confermando che i due si conoscessero, non esclude che avessero gli stessi obiettivi. Sappiamo altresì che Cefis, lo rivela alla Commissione Anselmi nell’ottobre del 1982 l’ex colonnello dell’esercito Nicola Falde, iscritto alla P2, oltre ad avere rapporti diretti con il numero due del Sid, Gianadelio Maletti, capo dell’ufficio “D”del controspionaggio, forniva assieme a Gelli, “proposte istituzionali”; in particolare il resoconto dell’audizione in Commissione di Falde fa riferimento, indicandolo fra parentesi, al discorso che Cefis pronunciò all’Accademia Militare di Modena, della quale lui stesso era stato membro, il 27 febbraio 1972. Il discorso, dal titolo  La mia patria si chiama multinazionale“, viene pubblicato da Elvio Fachinelli, psicoanalista, nel numero 6 della rivista da questi diretta “l’Erba Voglio“, fonte alla quale attingerà Pasolini. E’ indubbio che tale discorso faccia riferimento esplicito, evocandola apertamente, ad una svolta autoritaria del Paese. Ma a differenza di De Lorenzo, Cefis sembrerebbe propendere più che per un “tintinnio di sciabole“, per per una riforma costituzionale orientata al presidenzialismo, in grado di escludere il PCI dal governo della Nazione. Anche se le rivelazioni del finanziere broker Ravelli sembrano propendere più per l’uso della forza, è possibile ipotizzare come le due strade non si escludessero.

Sappiamo infine che da Petrolio manca il capitolo 21, intitolato “Lampi sull’ENI“, così come sappiamo, lo ha raccontato l’erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi, (moglie di Vincenzo Cerami) che subito dopo la morte del poeta l’ appartamento che abitava durante la stesura del romanzo subì un furto, e che alcuni fogli della stesura primaria furono sottratti.

Di fatto, nel testo di Petrolio vi è una nota che rimanda a tale capitolo, l’appunto 22a, Il cosiddetto impero di Troya, le filiali più vicine alla casa madre: “Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato “Lampi sull’Eni”.

Sembra, dunque, che il capitolo 21 sia stato scritto. Ora, come scrivono Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti nella prefazione di “Questo è Cefis”, se uniamo il furto in casa di Pasolini successivo alla sua morte, il capitolo inesistente, le dichiarazioni dello stesso Pasolini secondo cui il romanzo avrebbe dovuto avere 2000 pagine (intervista a Carlotta Tagliarini per il Mondo del 26 dicembre 1974) e non le 600 attuali, l’argomento del libro e le modalità dell’uccisione del poeta, e se a tutto questo aggiungiamo che Petrolio è stato pubblicato per la prima volta diciassette anni dopo la morte del suo autore, tutta questa serie di elementi, benché indiziari, lasciano bene immaginare l’esistenza di unico filo conduttore.

Molte ipotesi sono state fatte, nel corso degli anni, sul contenuto di questo capitolo 21; come abbiamo visto Mattei, Verzotto e Cefis militavano nella stessa brigata, la Divisione apolitica Valtoce in Val D’Ossola, in seguito inquadrata nelle Brigate Fiamme Verdi, di orientamento cattolico; tale brigata venne più tardi battezzata Brigata Alfredo Di Dio, in onore del suo comandate caduto in un agguato il 12 ottobre 1944, durante la battaglia di Domodossola. Secondo il finanziere Pisanò, Cefis, che partecipò a quella battaglia, aveva delle precise responsabilità in quell’agguato, tanto da arrivare a fare pubblicare sulla rivista “Candido” una lettera aperta in cui chiedeva al presidente dell’Eni di rivelare quanto sapesse sulla morte del comandante Di Dio. La circostanza viene riportata nel libro di Scalfari e Turani dal titolo “Razza Padrona”.

Fonti:

http://www.ilariaalpi.it/?p=6431

Ferruccio Pinotti: Fratelli d’Italia

Pier Paolo Pasolini: Petrolio

Giorgio Steinmez: Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente

Enrico Deaglio: Il raccolto rosso

Anna Vinci: La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi

David Grieco: La macchinazione: Pasolini, la verità sulla morte

  

  

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