I teorici della mafia imprenditrice

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Nel libro “La mafia imprenditrice” il sociologo Pino Arlacchi analizza la trasformazione del fenomeno mafioso da epifenomeno storico-sociale, legato ad una determinata area territoriale, a fenomeno economico-imprenditoriale criminale a carattere internazionale. L’elemento che ha determinato questo salto di qualità è stato, senza ombra di dubbio, a partire dalla metà degli anni Settanta, il controllo del mercato dell’eroina. Tale attività, fonte di un’enorme quantità di denaro sporco, ha portato l’autore, e le persone che hanno collaborato con lui, a riflettere, per la prima volta, sul tema del riciclaggio. 

Tra gli esperti e amici che hanno collaborato agli studi ed alle riflessioni dalle quali il libro trae spunto, vi sono Pio La Torre, Rocco Chinnici, Giovanni Falcone e Paolo Borsellino. Per far comprendere l’elevato livello delle riflessioni e di studi di cui si sta parlando, si pensi che da uno di questi, completato nel 1978 dello stesso autore, nacque il disegno di legge poi approvato col nome di legge Rognoni-La Torre (n.646/82), col quale veniva introdotto, per la prima volta, nel nostro ordinamento il reato di associazione mafiosa, ma anche misure come la confisca ed il sequestro dei beni ed il carcere duro per i mafiosi.

I paradisi fiscali centro di attrazione dei capitali illeciti

Le riflessioni sul riciclaggio prendono spunto dal fenomeno di privatizzazioni (illegali) che investì la Russia guidata da Boris Yeltsin, a dalla conseguente enorme fuga di capitali che si venne ad innescare.

Dalla fine degli anni Ottanta alla fine degli anni Novanta, circa 200 miliardi di dollari, pari al 57% del Pil russo varcarono, senza mai fare più ritorno, i confini dell’ex Unione Sovietica. Ogni anno, in media,  una cifra compresa tra i 15 e i 20 miliardi di dollari lasciava illegalmente il paese, dissanguando l’economia. Ma dove andavano a finire tutti questi soldi? Il principio che l’autore del libro pone come massima in queste questioni è: cifra piccola, banca piccola, cifra grande, banca grande.

Traducendo concettualmente tale regola base, se una piccola cifra di denaro sporco viene riciclata in una grande banca, le autorità della banca, per una questione puramente formale, tenderanno a denunciare la somma e chi cercherà di ripulirla, poiché le piccole cifre non rientrano, in genere, in una politica di gestione discutibile, anche nel caso di una banca disposta a violare le regole. Allo stesso modo, una grande somma nei conti di una piccola banca, da nell’occhio, anche se viene spezzettata in più conti distinti, grazie anche a sofisticati software antiriciclaggio.

Resta ancora da risolvere il dilemma di dove finiscono tutti questi soldi, una volta contabilizzati dalla banca. La risposta è relativamente semplice quanto densa di sfaccettature: in genere queste grandi somme, finiscono nei conti di i grandi banche internazionali, collegate con i mercati finanziari alternativi, quali i paradisi fiscali ed il mercato degli eurodollari.

nel caso dei dollari sottratti dal clan Yeltsin a seguito delle privatizzazioni, le indagini riuscirono ad individuare, nel 1999, 10 miliardi di dollari nei conti della Banca di New York. Una somma enorme.

Il riciclaggio ed il pool di Palermo: il contributo di Giovanni Falcone

I primi tentativi di studio sistematico dei meccanismi di riciclaggio adottati dalle famiglie mafiose, in collaborazione con la Procura di Palermo, risalgono ai primi anni Ottanta. L’impianto delle prime raffinerie di morfina grezza nei dintorni del capoluogo siciliano era cominciati verso la metà degli anni Settanta, ed i risultati, ben visibili, anche se la maggior parte dei proventi veniva spedita oltre confine, erano forniti da un incredibile aumento, più che sospetto, dei depositi riconducibili alla mafia, nelle piccole banche siciliane. Questa evidente sincronia, permise di indirizzare le indagini sulle raffinerie, riuscendo a interrompere il flusso di eroina diretto negli Stati Uniti e nel resto d’Europa. Si pensi che la droga prodotta rappresentava il 30% della domanda del mercato statunitense. Eppure, tolte le famiglie di esattori, i Salvo in primis, non vi erano in Sicilia grossi patrimoni di recente costituzione, che potessero lasciar supporre di un loro collegamento con la droga. Dunque era evidente come il denaro finisse altrove. Dati i divieti imposti dagli Stati Uniti, con i quali, a partire dai primi anni Settanta, veniva impedito alle banche svizzere che si ostinavano a mantenere il segreto sui depositi sospetti, di accedere a Wall Street, si arrivò al 1977 alla firma tra Stati Unti e Svizzera di un accordo di assistenza giudiziaria che imponeva a quest’ultima la collaborazione sulle indagini relative alle organizzazioni criminali, lasciando “debitamente” fuori dai controlli bancari la corruzione e l’evasione fiscale.

Intanto le mete dei soldi sporchi erano cambiate, preferendo il segreto bancario e soprattutto il sistema delle fiduciarie Lussemburghesi e del Liechtenstein.

I meccanismi di Sindona e Calvi

Un’attento studio sui sistemi utilizzati da due fra i principali attori del riciclaggio dei soldi della mafia, si era rivelato superato. Infatti, se da una parte il finanziere Michele Sindona privilegiava le speculazioni sui mercati valutari, il banchiere Roberto Calvi, grazie agli sportelli bancari aperti in tutto il mondo, e principalmente in paradisi fiscali quali il Lussemburgo, il Nicaragua e le Bahamas, era in grado di muovere rapidamente grandi cifre, facendole poi schermare da sistemi di società anonime, titolari dei conti impiegati. Dunque l’anonimato dei beneficiari delle società garantiva l’interruzione delle tracce relative al denaro sporco. Lo spunto utile all’individuazione dei soldi della mafia venne offerto da uno studio dal titolo:”The Use of Offshore Banks and Companies“, realizzato da uno staff del Senato degli Stati Uniti, guidato dallo studioso Richard Blum. Secondo la ricerca, la destinazione presa dalla maggior parte del denaro sporco – hot money – era quella dei paradisi fiscali  del mercato degli eurodollari, ovvero tutti quei mercati, al di fuori degli Stati Uniti, in cui venivano scambiati dollari.

Il valore delle transazioni che si concludono ogni giorno sui mercati finanziari, supera abbondantemente i 700 miliardi di dollari, ma solo una piccola parte di questi è legata al flusso commerciale mondiale. La restante parte corrisponde alla porzione più instabile del sistema finanziario globale. I paradisi fiscali e i mercati degli eurodollari rientrano in questa parte dei mercati finanziari, caratterizzati da un’ elevata instabilità. In essa finiscono, oltre ai soldi dei mafiosi, anche i fondi neri delle multinazionali, usati per corrompere i vari governi, i prestiti interbancari, i fondi frutto della corruzione e di ogni genere di attività illecita. Si trattava di quell’enorme massa di denaro estremamente volatile e altamente speculativa, che attaccava le economie instabili impoverendole, come accadde nei primi anni Ottanta al Messico del presidente Josè Lopez Portillo.

Anche Giovanni Falcone lesse il rapporto sui paradisi fiscali, rimanendone molto impressionato. L’osservazione che fece, subito dopo la lettura, fu la seguente:”Questi paradisi fiscali mi sembrano un’immensa torre di Babele. Ma forse questa è solo l’apparenza. Ci deve essere un centro da qualche parte. E se esiste può essere davvero il centro dell’inferno”.

In realtà i centri del male sono più d’uno, e lui ne aveva appena conosciuto un’altro, quello politico, che dietro una veste apparentemente formale, nascondeva oscuri giochi di potere, in cui la vita umana rappresenta solo una variabile indeterminata.

Oltre a quello, ve ne erano altri di centri, alcuni dei quali rappresentati sicuramente da località amene, in cui il segreto bancario e l’afflusso di capitali di dubbia origine rappresentavano la ragione stessa dell’esistenza del centro.

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