La loggia P2 e la militaricrazia

Licio_Gelli

 

Oltre ad osteggiare il progetto politico di fare entrare al governo il partito comunista, la loggia massonica coperta denominata P2, ebbe un importante ruolo nella vicenda del rapimento e dell’uccisione di Aldo Moro.

Dopo la sua nomina, avvenuta nel 1972, alla guida della P2, in qualità di segretario organizzatore, Licio Gelli devolve il suo impegno nel reclutamento di ufficiali delle forze armate e di appartenenti ai Servizi segreti. Dalla relazione della Commissione Anselmi risulta che la loggia P2 aveva svolto un doppio ruolo di promozione di una maggiore stabilità nel Paese, e di destabilizzazione dell’ordine democratico, attraverso l’impiego di forze eversive di estrema destra. Tra i progetti eversivi orchestrati dalla P2 vi sono stati il “Piano solo” del generale De Lorenzo, il golpe Borghese, il “golpe bianco” di Edgardo Sogno,  e tutte le stragi avvenute durante gli anni Settanta, a partire da quella di Piazza Fontana, e probabilmente anche il rapimento di Aldo Moro.

Con la vittoria elettorale del PCI del 1976 la strategia di Gelli e della P2 muta completamente, passando da un gioco su due tavoli, ad una penetrazione del sistema politico ed istituzionale da parte dei membri della Loggia, con la conquista scientificamente programmata dei gangli di potere dello Stato, a partire proprio dai Servizi. Risalgono al periodo autunno 1975- inverno 1976 la redazione sia del Memorandum sulla situazione politica italiana, che del Piano di rinascita democratica.

Nel memorandum viene descritta la crescita del PCI ed il timore di un suo ingresso al governo, oltre allo sfaldamento della DC. L’analisi, molto semplificata, propone come soluzione alternativa al temuto regime comunista la costituzione di un regime militare definito “militaricrazia“, molto simile a quello al potere in Grecia.

E’ in sostanza la materializzazione di quella minaccia che Henry Kissinger fece a Moro nel settembre del 1974, in occasione di quella visita ufficiale a Washington, alla quale partecipò, assieme al Presidente della repubblica Giovanni Leone. Kissinger disse allora a Moro che, se avesse continuato a portare avanti il suo progetto politico di governo delle larghe intese, avrebbe sostituito l’ambasciatore Giovanni Volpi con un generale.


Il ruolo della P2 nel rapimento Moro

Nel 1977 il Parlamento italiano vara la riforma dei servizi segreti, istituendo un servizio di sicurezza verso l’esterno, il SISMI, di natura militare, ed un altro verso l’interno, il SISDE, di natura civile, rinnovando in quest’ultimo gran parte del personale attivo. E’ stato da più parti affermato come tale riforma abbia di fatto riservato al solo SISMI l’attività di intelligence anche in chiave di sicurezza interna, rispondendo a logiche atlantiche più che al Parlamento.

Scrive Sergio Flamigni ne ” La tela del ragno” come risulti alquanto strano che nei mesi precedenti a quel fatidico 16 marzo 1978, così come durante i 55 giorni di prigionia del presidente della DC Moro, non ci fu una sola segnalazione che permettesse di individuare ed arrestare un solo brigatista, o a scoprire un covo. Silenzio assoluto. Eppure nella vicenda del rapimento del Generale Dozier i Servizi o ebbero modo di mostrare tutta la loro efficienza. In realtà poi sappiamo in maniera più o meno informale come i brigatisti fossero tenuti sotto controllo, basti citare la presenza del colonnello Guglielmi in via Fani il giorno del rapimento di Moro, o  il caso del covi milanese di via Montenevoso e del connesso duplice omicidio di Fausto e Iaio. O anche il controllo svolto da fiduciari del SISDE  sulle società immobiliari proprietarie di diverso immobili nel condominio di via Gradoli n.96, lo stesso in cui si trovava il covo delle BR. O la presenza del sottufficiale dei carabinieri Arcangelo Montani, agente del SISMI, nell’edificio di fronte al palazzo di via Gradoli 96 nel quale abitava Mario Moretti. La ragione per la quale tale attività verrà tenuta nascosta apparirà più chiara in seguito, quando si scoprirà come tutti i vertici dei Servizi, in particolare SiSMI e SISDE e loro sottoposti, fossero iscritti alla P2.  Si possono poi citare anche altri avvenimenti che consentono di sostenere tale tesi, quali il falso comunicato del Lago della Duchessa realizzato dal falsario Antonio Chichiarelli, legato al SISDE ed alla Banda della Magliana. O il ritrovamento nella tipografia impiegata da Moretti di via Foà, della stampatrice Ab-dick proveniente dal Rus del SISMI.


Il Memorandum e il Piano di rinascita democratica

Il Piano di rinascita democratica viene definito tale, poiché esclude qualsiasi ipotesi di rovesciamento violento del sistema. Si tratta però, nella sostanza, di un piano di natura eversiva, poiché si propone di restringere le libertà attraverso l’introduzione di alcune modifiche della costituzione, prevedendo una massiccia attività di infiltrazione, controllo e corruzione, in tutte le istituzioni democratiche.

Il Piano, secondo la Commissione Anselmi, ben lungi dal voler introdurre una nuova architettura costituzionale, costituisce un piano d’azione che fissa degli obiettivi, predispone le linee di intervento, e ne calcola il fabbisogno in termini finanziari. A tal proposito viene sottolineata la necessità di reperire la somma di 30-40 miliardi di lire (circa 300 milioni di euro), al fine di controllare giornali, partiti politici e sindacati. Viene inoltre prevista la fornitura di risorse economiche affinché determinati personaggi politici acquistino il potere nei rispettivi partiti di appartenenza. I politici di cui si fa il nome sono Craxi, Andreotti, Forlani e Piccoli. Il piano prevede anche l’infiltrazione di giornalisti affiliati alla P2 nelle redazioni delle principali testate giornalistiche, quotidiani e periodici. Per quanto riguarda la RAI, è prevista un’azione finalizzata a dissolvere il servizio pubblico, nel nome di una fantomatica libertà di antenna. Dalla relazione della Commissione Anselmi risulta che, sul piano politico, il Piano di Gelli prospetta una possibile rifondazione del partito della DC, sottolineando come “se per raggiungere gli obiettivi fosse necessario inserirsi – qualora si disponesse di fondi necessari pari a 10 miliardi – nell’attuale sistema di tesseramento della DC per (acquistare) il partito, occorrerebbe farlo senza esitare, con gelido machiavellismo, posto che Parigi val bene una messa”. La politica viene posta in posizione subalterna e di mera strumentalità rispetto ad una ristretta oligarchia, priva di qualsiasi responsabilità politica, costituita dagli iscritti alla P2.

“Primario obiettivo – viene scritto nel Piano – ed indispensabile presupposto dell’operazione è la costituzione di un club (di natura rotariana per l’eterogeneità dei suoi componenti) ove siano rappresentati, ai migliori livelli, operatori imprenditoriali e finanziari, esponenti delle professioni liberali, pubblici amministratori e magistrati nonché pochissimi e selezionati uomini politici… uomini tali da costituire un vero e proprio comitato di garanti rispetto ai politici che si assumeranno l’onere  dell’attuazione del piano”. La politica viene dunque sostituita da una tecnocrazia, mentre alla rappresentanza popolare viene preferita una autoselezione della classe politica, basata su legami di natura opaca. L’azione politica non viene più svolta alla luce del sole, all’interno dei luoghi istituzionalmente deputati, bensì all’oscuro, in luoghi privati, sulla base di collegamenti segreti, sottratti al controllo democratico ed alla pubblica opinione. Nasce così una struttura di governo alternativa al consiglio dei ministri, dotata di più sedi decisionali, diverse e alternative rispetto a quelle legittime. La rete degli iscritti alla P2 comprendeva 50 alti ufficiali dell’esercito, 29 della marina, 32 dei carabinieri, 9 dell’areonautica, 37 della finanza, 22 della pubblica sicurezza, 14 magistrati, 9 diplomatici, 3 ministri, 53 funzionari di ministeri, 49 di banche, 83 industriali, 124 professionisti, 8 dirigenti di società pubbliche, 12 dirigenti di società private,  59 tra senatori, deputati e uomini politici di partiti, 4 editori, 8 direttori di quotidiani, 22 giornalisti, 3 scrittori, 10 dipendenti RAI, i vertici di tutti i Servizi e del loro organo di coordinamento, ed inoltre i vertici della Guardia di Finanza.

Questo complesso di persone poste all’interno dei gangli delle istituzioni, ha avuto un ruolo importante sia nel disegnare le trame più oscure di questo Paese, sia nel tenere i rapporti con chi materialmente quelle trame le eseguiva. In tale contesto è ipotizzabile che il contributo fornito dalla P2 al rapimento di Moro ed alla sua eliminazione, sia stato, pur in assenza di prove chiare in tal senso, decisivo, posto che, l’opposizione al progetto politico che lo statista democristiano intendeva realizzare, era risultata evidente dai documenti elaborati da Gelli. D’altro canto sono emersi chiaramente i legami internazionali intrattenuti da Gelli, sia con il regime militare argentino (Peron e Massera), di cui il Venerabile era stato consigliere economico presso l’ambasciata in Italia, che con gli Stati Uniti. Risulteranno infatti iscritti alla P2 sia il Capo zona di Roma della Cia, Howard Randolph Stone, che lo stesso generale Massera. Gelli era inoltre in ottimi rapporti con uno dei membri del comitato elettorale di Ronald Reagan, Philip Guarino. (cm)

Fonti:

Sergio Flamigni: La tela del ragno

Carlo Alfredo Moro: Storia di un delitto annunciato

Documenti declassificati ex direttiva Prodi

 

 

 

 

 

 

Mattei e Pasolini, l’ombra dell’intrigo

il 27 ottobre 1962 un jet biposto Morane-Saulnier precipita in località Bascapè, nella provincia pavese. In quell’aereo, guidato dal fido Irnero Bertuzzi, viaggiava il presidente dell’ENI, Enrico Mattei.

Le indagini guidate dal pm Edgardo Santachiara terminano il 31 marzo 1966 con un “non luogo a procedere”. Le conclusioni alle quali giunge il magistrato sono quelle dell’incidente dovuto ad un errore del pilota. Una seconda inchiesta, aperta il 20 settembre del 1994 sulla base di nuovi elementi, si conclude il 20 febbraio 2003 con una richiesta di archiviazione. Il ritrovamento di alcuni resti del velivolo, avvenuto nel 1997, porta alla conclusione che l’aereo è esploso a causa di un ordigno.

L’inchiesta della magistratura riesce dunque a provare l’esplosione, ma non a scoprire chi e perchè aveva piazzato l’esplosivo.

Quest’ultima indagine viene condotta dal sostituto procuratore Vincenzo Calia che, dopo avere riaperto il caso sulla base di nuovi elementi, comincia a leggere il libro Petrolio di Pier Paolo Pasolini. Il testo, uscito nel 1992, diciassette anni dopo la morte del suo autore, è l’opera alla quale il poeta friulano stava lavorando quando viene ucciso all’Idroscalo di Ostia, il 2 novembre 1975. Conservato prima della sua pubblicazione in due cartelle depositate presso l’Archivio Bonsanti del Gabinetto di Vieusseux di Firenze, il lavoro consiste in una serie di fogli in parte dattiloscritti ed in parte vergati a mano. La seconda delle due cartelle contiene invece una serie di articoli di giornale del settembre del 1973, tra i quali il testo del discorso tenuto dall’ex presidente della Montedison e prima ancora dell’Eni, Eugenio Cefis, presso l’Accademia Militare di Modena, oltre alle fotocopie del libro “Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente”, pubblicato da Ami nel 1972. Quest’ultimo è la fonte principale del lavoro di Pasolini. Ed è lo stesso Calia ad accorgersene quando ne entra in possesso: da un’attenta lettura il magistrato si rende conto di come tutte le informazioni relative al personaggio principale di Petrolio sono state tratte da Cefis, ed anzi che Carlo Troya è Cefis, mentre Enrico Boncore è Mattei.

Nella terza istruttoria che Calia aprirà nel 1994 e che si concluderà nel 2002, il pm pavese cercherà per l’ultima volta di dimostrare chi è perchè mise l’esplosivo all’interno del Morane-Saulnier del presidente dell’ENI.


Mattei l’ENI e la mafia

La morte di Mattei e di Pasolini non sono le uniche che apparentemente sembrano avere un collegamento tra loro. Il 16 settembre 1970 viene rapito a Palermo il cronista di mafia de “l’Ora” Mauro De Mauro.

De Mauro è stato incaricato dal regista Francesco Rosi, che intende girare un film su Mattei, di ricostruire gli ultimi due giorni di vita del presidente dell’ENI. L’ente di Stato dei petroli, grazie ad una montagna di soldi pubblici, si parla di 2000 miliardi affluiti da Roma fino agli inizi degli anni ’80, ha scoperto importanti giacimenti di petrolio a largo del piccolo paese siciliano di Gela, sulla costa meridionale dell’isola, ed ha così deciso di investire in quei luoghi, creando dal nulla un importante centro petrolchimico. Memorabile è il comizio che Mattei tiene a Gagliano di Castel Ferrato, il giorno prima dell’incidente; nel discorso, enfatizzato anche da Rosi nel suo film, il presidente dell’ENI preannuncia la nascita del polo industriale come una grande opportunità di riscatto della popolazione dalla povertà e dalla dipendenza dal petrolio straniero.

Quello che accadrà, di li a qualche anno, sarà invece che le famiglie mafiose gelesi legate a Piddu Madonia, ai Jannì, ai Cavallo ed ai Jocolano si ingrasseranno con i soldi pubblici, a partire dalle speculazioni sui terreni intorno al petrolchimico, che da un giorno all’altro diventano una miniera d’oro. Tutta Gela è costruita abusivamente, ed ancora oggi è il più grande paese d’ Europa frutto dell’abusivismo edilizio. E poi c’erano anche i trasporti; nel solco della tradizione, tutto il trasporto da e per il petrolchimico sarà gestito in monopolio dalla famiglia Jocolano.

Ma, nonostante il fiume di denaro pubblico drenato illegalmente, le famiglie non riescono a distinguere nella figura di Mattei quella del benefattore.

Secondo la deposizione resa dal boss Tommaso Buscetta nell’interrogatorio del  29 aprile 1994, Mattei viene ucciso da Cosa nostra americana per via della sua politica petrolifera ritenuta lesiva degli interessi americani in Medio Oriente. “A muovere le fila – racconta Don Masino – erano molto probabilmente le compagnie petrolifere, ma ciò non risultò a noialtri direttamente, in quanto arrivò Angelo Bruno, della famiglia di Filadelfia, e ci chiese questo favore a nome della Commissione degli Stati Uniti“. Secondo Buscetta, dunque, l’ordine di fare fuori Mattei viene dagli Stati Uniti, e ad occuparsene, facendo in modo che sembri “un incidente”, è Salvatore Greco detto “Cicchiteddu”, d’accordo con il vertice di Cosa nostra italiana, Stefano Bontate.

Il contatto con Mattei – racconta ancora Buscetta – fu stabilito da Graziano Verzotto, un uomo di potere che rappresentava l’ENI in Sicilia“. Secondo Buscetta Verzotto, pur essendo legato al  boss Giuseppe Di Cristina, non è informato del progetto di eliminazione di Mattei. Dunque Verzotto, amico di Mattei, viene usato per invitare il Presidente dell’ENI ad una battuta di caccia, il suo passatempo preferito. Durante la battuta, gli uomini di Greco manomettono i comandi dal velivolo, così da far sembrare la morte di Mattei, un incidente.

Anche il pentito Gaetano Ianni riferisce all’ Autorità Giudiziaria, in un verbale di interrogatorio datato 27 luglio 1993, che l’eliminazione di Mattei viene decisa dagli americani e quindi trasmessa a Cosa nostra in Sicilia: “Il centro di Cosa nostra, cioè Palermo – racconta Ianni – incaricò per l’eliminazione  Giuseppe Di Cristina il quale con la sua famiglia fece in modo che sull’aereo sul quale viaggiò Mattei venisse collocata una bomba“.

Di analogo tenore sono le dichiarazioni rese da un altro pentito, Salvatore Riggio, il quale in un verbale di interrogatorio datato 15 luglio 1996 dichiara che “Nella famiglia di Riesi  si parlava di una bomba messa sull’aereo“.


 Cefis e la pista interna

Di diverso avviso è il sostituto è il procuratore paveseVincenzo Calia, che ha indagato nella seconda e nella terza inchiesta. Per Calia la morte di Mattei fu il risultato di un complotto “orchestrato con la copertura degli organi di sicurezza dello Stato e poi occultato in un intreccio di omertà e depistaggi pronti a ricompattarsi ogni volta che, nella storia del Paese, qualcuno minaccia di rivelarne il segreto“.

Analoga è la conclusione a cui conducono le dichiarazioni rese da Graziano Verzotto, interrogato a Pavia da Calia, il 4 settembre 1998. Secondo Verzotto “il sabotaggio del Morane Saulnier si spiegava con una pista esclusivamente italiana. Tale pista, secondo De Mauro, portava direttamente ad Eugenio Cefis e a Vito Guarrasi”. Guarrasi è un avvocato e imprenditore di Palermo, secondo molti legato alla mafia, membro del cda della società anonima “l’Ora”, il giornale per cui lavorava De Mauro.

Anche le dichiarazioni rese al giudice Calia dalla figlia di De Mauro, Junia, riconducono alla pista interna. ” Sono in grado di affermare con sicurezza – dichiara Junia De Mauroche mio padre addossava precise responsabilità per la morte di Mattei all’attuale presidente dell’ENI Eugenio Cefis“.

E’ lo stesso Verzotto a raccontare a De Mauro, nell’estate del 1970 poco prima del suo rapimento, alcuni particolari sulla vicenda Mattei, ed in particolare sul coinvolgimento di Cefis e di Guarrasi.

De Mauro poi si confiderà con l’amico giornalista Igor Man raccontandogli: “Sto ricostruendo il caso Mattei  e ti debbo dire che c’è d’entro, ci sono dentro tutti: i politici, gli stranieri, la Cia e, ahimè, pure la mafia“.

E’ stato detto da più parti come la sparizione di De Mauro sia legata alla scoperta da parte di questo del golpe Borghese, al quale avrebbe partecipato anche Luciano Liggio. Sappiamo per certo che De Mauro, ex aderente alla Repubblica di Salò, aveva mantenuto collegamenti diretti con il principe nero Julio Valerio Borghese, in onore del quale aveva chiamato sua figlia Junia. Sappiamo inoltre a proposito di questo colpo di stato che i suoi principali promotori, gli ufficiali Gavino Matta e Giovanni Ghinazzi, erano iscritti alla Loggia coperta denominata “Comunione di Piazza del Gesù”; e sappiamo anche che Licio Gelli aveva svolto un’ incessante attività di cooptazione in favore della Loggia P2, tanto che al momento del golpe vi risultarono iscritti circa 400 ufficiali; sappiamo infine che, secondo le risultanze della Commissione Anselmi, fu proprio Gelli ad impartire l’ordine di abbandonare l’iniziativa, dopo un confronto interno che vide prevalere i golpisti favorevoli ad una svolta presidenziale di tipo istituzionale. A seguito della scoperta del golpe e dell’apertura della relativa inchiesta giudiziaria, la loggia P2 di Gelli interrompe tutte le attività, per poi riprenderle attivamente a partire dal 1976.


   

L’ENI e la rete “Stay Behind”

David Grieco nel libro intitolato “La macchinazione: Pasolini, la verità sulla sua morte” sottolinea come lo scenario della guerra di resistenza rivesta un ruolo determinante nella vicenda di Mattei.

Grieco fa notare come Cefis e Pasolini siano entrambe friulani, ed in particolare come il poeta conosca bene i retroscena delle faide interne alle varie brigate partigiane, avendo egli perso un fratello in una di queste. Si da il caso, scrive Grieco, che Mattei, Cefis e Verzotto militassero nella stessa brigata, e che inoltre molti partigiani vennero infiltrati dall’OSS e dai Servizi segreti inglesi per vigilare e tentare di “gestire” l’andamento delle vicende politiche italiane, cercando soprattutto di impedire che l’Italia finisse nell’orbita di influenza dell’ex Unione Sovietica. Sono i prodromi di quella rete che prenderà il nome di Stay Behind, e che verrà ufficialmente creata con l’adesione del Paese alla Nato.

Come le vicende italiane hanno potuto mostrare, la rete Gladio è stata responsabile di molte delle stragi e degli attentati che si sono verificati dal dopoguerra fino agli anni più recenti, incluso il rapimento di Aldo Moro. Ufficialmente Gladio viene smantellata nel dicembre del 1972, con i carabinieri che rintracciano 127 dei 139 depositi clandestini di armi.

A questo riguardo in un comizio tenutosi a La Spezia il 5 dicembre 1972, il segretario della Democrazia Cristiana Arnaldo Forlani dichiara: “E’ stato operato il tentativo forse più pericoloso che la destra reazionaria abbia mai tentato e portato avanti [..] con una trama che aveva radici organizzative e finanziarie consistenti, che ha trovato la solidarietà probabilmente non soltanto in ordine interno ma anche in ordine internazionale. Questo tentativo non è finito. Noi sappiamo in modo documentato che questo tentativo è ancora in corso“.

Nel dicembre del 1975 il direttore uscente della CIA, William Colby racconta alla commissione d’inchiesta del Congresso statunitense, che la sua organizzazione aveva finanziato la DC e tutti gli altri partiti di maggioranza versando complessivamente 65 milioni di dollari, e tutto per impedire ai partiti di sinistra di andare al governo. Qualche anno più tardi il successore di Colby, George Bush senior, ammette di avere organizzato operazioni segrete per influenzare gli avvenimento politici italiani, e non solo sul piano elettorale. Egli dichiara inoltre che la sua organizzazione sarebbe stata pronta ad organizzarne di nuovi, qualora se ne fosse resa la necessità, per rispondere alle esigenze di sicurezza degli Stati Uniti.


La politica energetica di Mattei

Secondo Grieco l’attentato all’aereo di Mattei è stato voluto dai Servizi americani e francesi, nell’ambito di un rinnovato rapporto tra Servizi americani e Cosa nostra, che era stato alla base del successo dello sbarco alleato in Sicilia. Le ragioni dell’eliminazione del presidente dell’ENI vanno individuate nella politica di approvvigionamento energetico che l’ente nazionale idrocarburi stava portando avanti,  basato su di una relazione diretta con alcuni paesi produttori di petrolio, autonomi dagli interessi del blocco che si riconosceva nelle gradi imprese statunitensi, ed in particolare con la Libia e l’Algeria. Mattei intendeva scavalcare il cartello petrolifero creato dalle grandi compagnie statunitensi, le famigerate “sette sorelle”, cartello che permetteva agli ex “alleati”, Inghilterra, Stati Uniti e Francia, di controllare in maniera incontrastata il mercato petrolifero, imponendo a tutte le altre nazioni prezzi e quantità, attraverso il controllo geopolitico della maggioranza dei paesi produttori. Mattei cerca a suo modo di spezzare questa catena, in parte rifornendosi in paesi estranei a quest’accordo, ed in parte soddisfacendo la domanda energetica interna attraverso la scoperta di alcuni giacimenti in Italia, sia di gas naturale che di petrolio, tra cui il famosissimo Supercortemaggiore.

Ancora oggi non sappiamo con certezza quale sia stato il ruolo preciso dei due ex commilitoni di Mattei, Cefis e Verzotto, in tutta questa macchinazione.

Quel che sappiamo è che dopo la scomparsa di Mattei, Verzotto comincia una carriera professionale fulminante, che lo porta in breve tempo ad essere eletto in Senato e a ricoprire la carica di presidente dell’Ente minerario siciliano, oltre che quella di segretario della DC nell’isola, con l’incarico anche di gestire i rapporti non solo elettorali con Cosa nostra.

Anche Cefis avrà una carriera fulminante: dopo le dimissioni dall’ENI avvenute dieci mesi prima dell’attentato (secondo alcune fonti sarebbe stato Mattei a cacciare Cefis quando si accorse dei suoi legami con la CIA) nel gennaio del 1962, il presidente del consiglio Amintore Fanfani, che diverrà il suo protettore politico, lo chiamerà, pochi giorni dopo la scomparsa di Mattei, a ricondurre le sorti dell’ente petrolifero nazionale nell’alveo degli interessi statunitensi, abbandonando quella vagheggiata autonomia, a lungo inseguita dal suo predecessore.


Corruzione malgoverno e mafia

Gli anni che seguiranno saranno caratterizzati da un sempre maggiore peso della corruzione nella politica e nell’economia, e da un crescente peso di Cosa nostra nella politica e nella contribuzione del PIL non ufficiale.

Nel 1991 il settimanale Il Mondo ha censito seicento cosche mafiose tra Sicilia, Campania e Calabria, in grado di produrre un fatturato di cinquemila miliardi, pari quasi a quello del gruppo FIAT. Altri settecento erano invece attribuiti più in generale all’industria del crimine. Quando prima l’Alto Commissario per la lotta alla Mafia Domenico Sica e quindi il capo della Polizia Vincenzo Parisi raccontano al Paese tramite i mezzi di informazione che una parte del sud è fuori dal controllo dello Stato, finalmente viene squarciato quel velo di ipocrisia e di moralismo che aveva fino a quel momento considerato i “piccioli” della mafia, puliti e reinvestiti nell’economia legale, una cosa buona per l’economia, lo sviluppo e l’occupazione.

Qualche anno prima sia Verzotto che Cefis erano usciti di scena, in maniera non proprio edificante.

Nel gennaio del 1975 a seguito dello scandalo dei fondi neri dell’Ente minerario siciliano detenuti presso le banche svizzere di Michele Sindona, Gaetano Verzotto fugge prima a Parigi e poi in Libano, inseguito da un mandato di cattura.

Due anni più tardi Eugenio Cefis si dimette, a soli cinquantasei anni, da tutti gli incarichi ricoperti e si trasferisce in Svizzera, con un tesoro di “risparmi” stimato in cento miliardi di lire. Questo personaggio tanto potente quanto oscuro, lascerà un vuoto tanto evidente quanto inaspettato, da sollevare numerosi interrogativi. A questo proposito il presidente di Mediobanca Enrico Cuccia, persona molto misurata nei modi e famoso per i suoi silenzi più che per le sue esternazioni dirà a Cefis: “Che fa? Se ne va? Ma lei non era quello che doveva fare il colpo di Stato?“.

Come il suo ex commilitone Verzotto, Cefis abbandona in fretta e furia il Paese, temendo di essere arrestato. Sullo sfondo, come vagheggiato da Cuccia, l’ombra di un colpo di Stato.


La fuga di Cefis ed il supposto golpe

La vicenda viene raccontata dal broker di borsa Aldo Ravelli a Fabio Tamburini, in un’ intervista riportata nel libro “I misteri d’Italia”, uscito 1996.

Tamburini domanda a Ravelli perché Cefis scappò dall’Italia, e Ravelli conferma che l’ex presidente della Montedison stava per essere arrestato. Tamburini domanda se Cefis “coltivasse sogni autoritari” ma Ravelli non risponde, lasciando però intuire come le cose stessero proprio in questi termini.

A questo punto Tamburini chiede al broker da chi fosse organizzato il supposto golpe, e Ravelli risponde da ufficiali e generali dell’esercito e dai carabinieri. Ravelli poi racconta di essere a conoscenza della vicenda in quanto sarebbe stata a lui riferita da un suo amico in essa coinvolto.

Cosa accadde poi, domanda il giornalista, e Ravelli risponde che il golpe fallì grazie all’intervento di una persona: Gianni Agnelli, nemico di Cefis.

Ed è proprio il magistrato Vincenzo Calia, verso la voce degli anni ’90, a scoprire, attraverso alcuni documenti del SISMI, come dietro la P2 ci fosse proprio Cefis, il quale ha gestito la super Loggia fino a quando ha  ricoperto la carica di presidente della Montedison. Una volta dimessosi da tale carica per timore di essere arrestato, il suo ruolo all’interno della P2 viene assunto dal duo Gelli – Ortolani. La notizia era stata verificata dal SISMI attraverso fonti statunitensi.

E’ possibile che Pasolini sia stato ucciso perché aveva scoperto il golpe di Cefis, e avere dunque smascherato, per usare l’espressione del titolo del libro inchiesta su Cefis, l’altro volto dell’onorato presidente?

Quello che sappiamo per certo è che Giovanni De Lorenzo, capo del Sifar e artefice del golpe denominato “Piano solo”, era iscritto alla Loggia coperta Giustizia e Libertà, facente capo all’ordine di piazza del Gesù. Sappiamo anche che nel 1961 Cefis, prima di essere chiamato da Fanfani a dirigere l’ENI, dopo la morte di Mattei, si iscrive nella stessa loggia di De Lorenzo, e che tale cosa, pur non confermando che i due si conoscessero, non esclude che avessero gli stessi obiettivi. Sappiamo altresì che Cefis, lo rivela alla Commissione Anselmi nell’ottobre del 1982 l’ex colonnello dell’esercito Nicola Falde, iscritto alla P2, oltre ad avere rapporti diretti con il numero due del Sid, Gianadelio Maletti, capo dell’ufficio “D”del controspionaggio, forniva assieme a Gelli, “proposte istituzionali”; in particolare il resoconto dell’audizione in Commissione di Falde fa riferimento, indicandolo fra parentesi, al discorso che Cefis pronunciò all’Accademia Militare di Modena, della quale lui stesso era stato membro, il 27 febbraio 1972. Il discorso, dal titolo  La mia patria si chiama multinazionale“, viene pubblicato da Elvio Fachinelli, psicoanalista, nel numero 6 della rivista da questi diretta “l’Erba Voglio“, fonte alla quale attingerà Pasolini. E’ indubbio che tale discorso faccia riferimento esplicito, evocandola apertamente, ad una svolta autoritaria del Paese. Ma a differenza di De Lorenzo, Cefis sembrerebbe propendere più che per un “tintinnio di sciabole“, per per una riforma costituzionale orientata al presidenzialismo, in grado di escludere il PCI dal governo della Nazione. Anche se le rivelazioni del finanziere broker Ravelli sembrano propendere più per l’uso della forza, è possibile ipotizzare come le due strade non si escludessero.

Sappiamo infine che da Petrolio manca il capitolo 21, intitolato “Lampi sull’ENI“, così come sappiamo, lo ha raccontato l’erede di Pasolini, Graziella Chiarcossi, (moglie di Vincenzo Cerami) che subito dopo la morte del poeta l’ appartamento che abitava durante la stesura del romanzo subì un furto, e che alcuni fogli della stesura primaria furono sottratti.

Di fatto, nel testo di Petrolio vi è una nota che rimanda a tale capitolo, l’appunto 22a, Il cosiddetto impero di Troya, le filiali più vicine alla casa madre: “Per quanto riguarda le imprese antifasciste, ineccepibili e rispettabili, malgrado il misto, della formazione partigiana guidata da Bonocore, ne ho già fatto cenno nel paragrafo intitolato “Lampi sull’Eni”.

Sembra, dunque, che il capitolo 21 sia stato scritto. Ora, come scrivono Carla Benedetti e Giovanni Giovannetti nella prefazione di “Questo è Cefis”, se uniamo il furto in casa di Pasolini successivo alla sua morte, il capitolo inesistente, le dichiarazioni dello stesso Pasolini secondo cui il romanzo avrebbe dovuto avere 2000 pagine (intervista a Carlotta Tagliarini per il Mondo del 26 dicembre 1974) e non le 600 attuali, l’argomento del libro e le modalità dell’uccisione del poeta, e se a tutto questo aggiungiamo che Petrolio è stato pubblicato per la prima volta diciassette anni dopo la morte del suo autore, tutta questa serie di elementi, benché indiziari, lasciano bene immaginare l’esistenza di unico filo conduttore.

Molte ipotesi sono state fatte, nel corso degli anni, sul contenuto di questo capitolo 21; come abbiamo visto Mattei, Verzotto e Cefis militavano nella stessa brigata, la Divisione apolitica Valtoce in Val D’Ossola, in seguito inquadrata nelle Brigate Fiamme Verdi, di orientamento cattolico; tale brigata venne più tardi battezzata Brigata Alfredo Di Dio, in onore del suo comandate caduto in un agguato il 12 ottobre 1944, durante la battaglia di Domodossola. Secondo il finanziere Pisanò, Cefis, che partecipò a quella battaglia, aveva delle precise responsabilità in quell’agguato, tanto da arrivare a fare pubblicare sulla rivista “Candido” una lettera aperta in cui chiedeva al presidente dell’Eni di rivelare quanto sapesse sulla morte del comandante Di Dio. La circostanza viene riportata nel libro di Scalfari e Turani dal titolo “Razza Padrona”.

Fonti:

http://www.ilariaalpi.it/?p=6431

Ferruccio Pinotti: Fratelli d’Italia

Pier Paolo Pasolini: Petrolio

Giorgio Steinmez: Questo è Cefis. L’altra faccia dell’onorato presidente

Enrico Deaglio: Il raccolto rosso

Anna Vinci: La P2 nei diari segreti di Tina Anselmi

David Grieco: La macchinazione: Pasolini, la verità sulla morte

  

  

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