La politica internazionale di Moro

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Dure giorni dopo la strage di via Fani, l’inviato negli Stati Uniti del Corriere della Sera, Ugo Stille, in un suo articolo fa riferimento ad un editoriale uscito sul Washington Post, in merito al rapimento di Moro, nel quale viene sollevata una critica al modo in cui l’Italia viene governata. L’editoriale si conclude in questo modo: “A noi sembra stia per concludersi in modo drammatico la vecchia tradizione Italiana dei governi deboli, espressione di un mondo politico chiuso e senza ricambio dominato da una piccola cerchia di figure perenni, preoccupate di sopravvivere a se stesse. Questo delitto potrà ora fare precipitare in Italia quel tipo di crisi dalla quale dovrà emergere uno stile di governo molto diverso”.

Dunque il rapimento dello statista democristiano viene visto oltreoceano come un’occasione per sparigliare la vecchia casta dei politici italiani, magari favorendo la nascita di un governo “forte”, capace di fare ciò che i governi precedenti non erano stati in grado di fare. Non è un segreto che, sia la politica estera, con il riconoscimento graduale dello stato della Palestina, che quella interna, con l’apertura da parte della DC ad un governo con i socialisti, apertura che avrebbe condotto in prospettiva, dentro la maggioranza, anche il PCI di Enrico Berlinguer, erano malviste da Washington. In particolare il governo statunitense non poteva accettare che un partito politico che si definisse comunista, benché avesse deciso di tagliare tutti i ponti con l’URSS, potesse arrivare al governo di un paese occidentale e culturalmente importante come l’Italia: poteva diventare un pessimo esempio per altri paesi, come la Grecia, la Spagna ed il Portogallo. Il fautore di queste politiche era stato, principalmente, Aldo Moro, che dal dicembre del 1963 al giugno 1968 aveva ricoperto la carica di Presidente del consiglio, mentre dal marzo del 1970 al giugno del 1972 era stato ministro degli Esteri. L’ambasciatore Paolo Ducci racconta nel suo libro “I capintesta“, che Moro era stato in grado di conseguire, con l’analoga caparbietà con cui aveva varato il primo governo con i socialisti, operazione che sarebbe stata poi allargata ai comunisti, nei confronti della Palestina, una politica fatta di passi successivi, che avrebbero condotto prima al riconoscimento degli interessi legittimi di quel popolo, poi a quello degli interessi nazionali, e in seguito ai diritti nazionali dei palestinesi, per concludersi con il diritto dei palestinesi ad una patria. Ducci concludeva, dichiarando di avere l’impressione che, in conseguenza di tale posizione, Moro fosse sempre più ritenuto da Gerusalemme, persona non grata. Nel settembre del 1974 Moro, ministro degli Esteri, si reca con l’allora Presidente della repubblica, Giovanni Leone, in visita ufficiale a Washington. Il giorno 25 il Washington Post esce con un editoriale in cui vengono sottolineate le aspettative da parte dell’amministrazione statunitense, circa una forte rassicurazione dell’alleato italiano su una prosecuzione dell’alleanza postbellica, e della conseguente smentita di un eventuale rilancio del partito comunista in Italia. Due giorno dopo, sempre sul WP, viene ripresa un’intervista al primo ministro israeliano Rabin, in cui dichiara di avere ricevuto, da parte di diverse personalità internazionali, l’indicazione forte che in Italia e in altri paesi europei che vi fosse il forte rischio di una dominazione comunista. Tra le personalità internazionali accennate, nell’articolo si fa esplicito riferimento al segretario di Stato Henry Kissinger. La sera di quel 27 settembre, mentre la delegazione italiana assisteva al Metropolitan alla rappresentazione della Madama Butterfly, Moro, che si era recato presso la chiesa di San Patrick, ebbe un malore, e fu costretto a rientrare in Italia. Rientrato a Roma, Moro disse al suo addetto stampa, Corrado Guerzoni, di comunicare ai principali organi di stampa che di li a poco, si sarebbe ritirato definitivamente dalla politica. E questo prima di qualsiasi accertamento medico. La moglie di Moro ha raccontato, in seguito, che il marito le aveva confidato che una persona della delegazione, della quale non fece il nome, gli aveva detto che doveva smettere di perseguire l’obbiettivo politico di fare entrare i comunisti al governo, altrimenti l’avrebbe pagata cara. La minaccia era chiaramente riferita alla sua incolumità. Dopo un po di tempo, Moro cambiò idea, decidendo di proseguire il suo piano, pur sapendo di correre seri rischi.

 

Moro e lo scandalo Lockheed

Un ex agente dei servizi segreti statunitensi, deponendo agli inizi di dicembre del 1975, davanti ad un comitato del Congresso degli Stati Uniti incaricato di vigilare sulla condotta delle multinazionali, riferisce che la multinazionale degli armamenti Lockheed ha corrisposto una serie di pagamenti ad alcuni governanti europei, per favorire la vendita, ai governi di cui facevano parte, di due suoi prodotti, il caccia Starfighter e il bombardiere Hercules C 130.

Nel febbraio dell’anno seguente, dalla relazione del comitato, si viene a sapere che in Italia i soldi venivano corrisposti ai fratelli Lefebvre, mediatori d’affari, e a due ministri della difesa. Attraverso un riscontro con i conti bancari dei ministri della difesa interessati, si scopre che i ministri sono Mario Tanassi e  Luigi Gui. Si tratta, come vedremo, di una manovra messa in atto dal Dipartimento di stato americano per colpire indirettamente Moro e la sua corrente politica, i morotei, alla quale Gui apparteneva. Dagli Stati Uniti si cerca di coinvolgere anche il ministro Emilio Colombo, ministro del Tesoro, con scarso successo.

Dai documenti in possesso degli americani, risulta che la persona che aveva incassato la tangente di un milione di dollari, si nascondeva dietro lo pseudonimo di Antelope Cobbler. Secondo il Dipartimento di Stato americano, Antelope Cobbler era in realtà Moro. L’ex segretario dell’ambasciatore a Roma, che aveva lavorato in passato nell’ufficio dell’assistente al Dipartimento di Stato, invia una copia della relazione del comitato all’ambasciatore degli Stati Uniti in Italia, Volpe. Quest’ultimo, attraverso il suo avvocato Antonio Trimarco, contatta Luca Dainelli, consulente del mediatore d’affari Lefebvre, già condannato per corruzione dalla Corte costituzionale. Dainelli racconterà al giudice istruttore che, non potendo Volpe contattare la sua fonte per non comprometterla, aveva incaricato lui di cercare conferme a Washington, circa le accuse contenute nella relazione. Dainelli racconterà inoltre, di avere appreso dall’ex capo stazione Cia a Roma, Howard Randolph, iscritto alla P2, che Antelope Cobbler era in realtà Moro.

Da alcune intercettazioni i magistrati scoprono che Lefebvre e Dainelli avevano organizzato in modo tale far ricadere la colpa dello scandalo su Moro, prima del viaggio in Italia di Howard Randolph, e che inoltre Volpe era interessato a fare scoppiare lo scandalo che avrebbe rovinato la carriera a Moro.

Nel marzo del 1978, due settimane prima di via Fani, la Corte costituzionale archivia le accuse mosse contro Moro, poiché le prove che fosse lui l’Antelope, non erano attendibili. L’anno successivo, il marzo del 1979, la Corte costituzionale assolverà anche Gui per non avere commesso il fatto. Venne invece condannato per corruzione il ministro del Psdi Tanassi. Tra i documenti sottratti dai brigatisti a Moro in via Fani, e contenuti in una delle sue borse, vi erano anche quelli della Corte costituzionale relativi alla sua assoluzione, dai quali emergeva come ad orchestrare le accuse fosse stato il gabinetto del Segretario di Stato.  Tutti questi documenti verranno distrutti dai brigatisti.

 

CM

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